Dall’anamnesi al racconto:

klee7Analisi esistenziale e/o analisi narrativa?

Bruno Callieri

 

La centralità della narrazione in psichiatria (G. Martini, pag. 239) si impone sempre più, con l’attuale attenzione alla dimensione ermeneutica e quindi alla irrinunciabilità del paradigma informativo, pur lasciando impregiudicata la validità dell’informatizzazione del linguaggio analogico. In generale, la svolta narrativa nella letteratura medica e psicologica e nella letteratura sull’esperienza della malattia ha beneficiato degli interessi più ampi dell’analisi letteraria, sia nelle scienze umane che nelle scienze sociali.

Ricoeur parla di tempo narrativo; forse però spetta ad Arthur Kleinman (1988) il merito di aver unito la tradizione antropologica a quella clinica, mostrando “il significato che viene creato nella malattia”, plasmato dai valori culturali e dai rapporti sociali. Si cerca di scoprire e anticipare nelle loro varie dimensioni la struttura e il significato degli eventi che si svolgono: si pensi all’anamnesi offerta dai familiari di un malato di cancro o a quella fornita dai genitori di uno schizofrenico o dai familiari di un’ossessiva. D’altra parte, è necessario assumere di volta in volta punti di vista diversi per seguire le prospettive presentateci dal “narratore”, quando propone e riconfigura eventi vissuti, azioni trascorse, torti patiti; c’è anche da tener conto che il progressivo svolgersi del racconto anamnestico induce alla scoperta personale di nuovi significati proprio da parte del narratore (paziente, o presunto tale). Questi significati riguardano sia la costruzione della trama della malattia, sia la posizione del sofferente nel contesto del discorso locale, quasi sempre familiare. È qui che lo psicoanalista cerca di revocare l’oblio. Certamente è nostra esperienza di terapeuti (a qualunque scuola si appartenga) che la trama narrativa che va dispiegandosi prenda insieme (com-prenda) e integri fra loro eventi molteplici e dispersi (Ricoeur, 1983), costruendo, a partire da ciò, anche totalità significative: la morale del racconto, il de te fabula narratur. Basti pensare alla più comune forma di storia, di ricostruzione anamnestica, che narra come una malattia abbia preso inizio da un “grave” trauma emotivo associato ad un’esperienza di paura o ad una grave perdita personale (vanno ricordate qui leSchreckpsychosen, le Psicosi da spavento, di Panse, che io studiai – sia pure molto superficialmente – tanti anni fa).

Certo, una narrazione così intesa, proprio nel senso di Binswanger, stimola, sollecita lo psicoterapeuta ad entrare nel mondo ipotetico e possibile del come-se, proposto dal paziente, attirandolo nelle sue diverse prospettive e ricostruzioni. In vero, un’anamnesi è sempre una metafora alla quale sottostà un’autobiografia del profondo. Nel resoconto anamnestico del paziente lo psicopatologo deve saper cogliere le sequenze alternative del suo narrare, dove ogni trama implica una diversa forma di efficacia perché mantiene sempre un’apertura al cambiamento: e ciò forse anche in persone con evidenti ritardi mentali, sia d’origine che di declino o di tramonto. Quando si racconta il proprio passato, non lo si rivive, lo si ricostruisce; il che non vuol dire che lo si inventa; un evento non può far ricordo se non è carico di emozione. Si pensi ai racconti che il fanciullo fa a se stesso: la posta politica del racconto di sè è enorme; si tratta di salvare Narciso, proprio tessendo un legame d’intimità con l’ascoltatore, sopprimendo le sfaldature, le linee di clivaggio; Dolores Munari Poda e Anna Rotondo ce lo ricordano, con la magia del loro dire di terapeute transazionali.

Qui è opportuno accennare alla collocazione narrativa della sofferenza (Good, pag. 241), dimensione esistenziale di primaria importanza. Spesso lo svolgersi di un’analisi, nel succedersi ripetitivo delle sedute, può apparire come il mero tentativo di dare un senso alla propria vita, collocando la storia in un contesto unitario e univoco, visto dal paziente da prospettive di volta in volta diverse. Il contesto sociale, a mio parere, offre alla memoria autobiografica punti di repere più attendibili dell’intrecciarsi degli avvenimenti. In tal senso si può anche parlare di una formazione storico-culturale e socio-culturale della propria malattia, di uno svolgimento interiore che può sminuire il valore della sofferenza e deformare l’essenza profonda dell’esperienza vissuta, confermando in certo qual modo il concetto di realtà come costruzione sociale o esistenziale (Berger e Luckmann).

Noi non siamo altro che la storia che narriamo su noi stessi; e la nostra identità narrativa si costituisce mediante la nostra storia. La nostra identità narrativa è, insieme, accertamento di dati e narrazione creativa: l’ermeneutica come unione frafinzione narrativa (fiction) e storia. L’uomo come trama di una narrazione attraverso la quale scopriamo la nostra identità, identità piena di senso e che può essere decifrata e compresa (P. Ricoeur, Temps et récit, vol. II).

Secondo me, la narrativizzazione di ogni storia di malattia (il suo più o meno radicale assorbirsi in trame narrative), è uno degli strumenti primari di cui ci si serve per contestualizzare la malattia: si tematizzano aspetti del tutto nuovi dell’esperienza, mentre altri scompaiono dall’orizzonte del suo farsi cronico. Ciò era stato ben visto da Walter Benjamin nel suo bel saggio Il narratore. L’anamnesi è cosparsa di “lacune”, che provocano una risposta dell’immaginario, ricollocando la realtà in un quadro di senso spesso vario ma sempre molto aperto al contesto; rara è qui la mera confabulosi; chè rendere non-dimenticato ciò che è stato dimenticato (rimosso) è scopo terapeutico, anche se il freudiano Pierre Bertrand sembra dubitarne, tenendo non molto conto della distinzione freudiana tra oblio non pacificato (prima) e oblio pacificato (dopo la cura).

La storia interiore di vita, così come ancora oggi è da noi intesa nella scia di Binswanger, ci dà un’idea dell’importanza delleidee portanti, che spesso sembrano eludere la vita e sfidare la descrizione razionale (cfr. Di Petta). Forse in questo ambito la sensibilità dell’antropologo e dell’ermeneuta può essere davvero utile allo psicoanalista e all’analista esistenziale: ci si consente di elaborare la nostra interpretazione alla luce della dimensione narrativa con-vissuta (il coinvolgimento, di cui dirò oltre). Il mondo della dimensione narrativa è, come quello di ogni esperienza umana, sempre un mondo temporale; anzi, si può dire che “il tempo diviene tempo umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo” (Di Petta), sia come favola che come intreccio. Seguendo anche qui la grande lezione di Ricoeur, si può dire che la costruzione dell’intreccio – come, man mano, il narrante (psicotico, nevrotico, normale) va delineando – procede attraverso una paziente operazione di trafilatura e di integrazione di elementi anche molto eterogenei, non troppo lontani dalla formazione dei sogni, dall’oneirogenesi freudiana.

Si pensi qui anche, alla trascrizione (narrativa) del racconto del sogno, come comunicato a quel recettore vivente che è appunto l’analista: questi si trova di fronte a una storia raccontata, che va a produrre nuovi significati, e ad un intreccio, da intendersi come delicata e complessa integrazione, volta a costituirsi come una basilare condizione dell’esistenza temporale. Basti pensare al fatto che nell’interno del narrante (per esempio, del paziente fobico, ossessivo, isterico, psicopatico, schizofrenico, melancolico, ipertimico, perverso), i vissuti si temporalizzano secondo scansioni irresistibilmente soggettive, rigide o mutevoli, in tal modo rivestendosi di senso.

Nel suo lavoro su “L’apprendere mediante l’esperienza, il comprendere e l’interpretare in psicoanalisi”, (che lessi nell’edizione di Gallimard del 1970) e in quello del 1954 su “Analisi esistenziale e psicoterapia”, Binswanger si poneva nettamente il problema se fosse possibile l’edificazione di una scienza sperimentale del comprendere, cioè del dare un senso, e darlo soltanto tramite l’esperienza e senza pre-giudizi. E qui compare, nella sua attuale fluenza di significato, il rimanereimpigliati e impelagati nelle storie dei nostri pazienti che (come dicono Naudin e Coll.) restano empêtrés dans des histoires.

Wilhelm Schapp (del cui pensiero ebbi conoscenza tramite la lettura di Ricoeur), rinnovando la fenomenologia e l’ermeneutica attuali alla luce della narratività, ci consente come pochi altri oggi di riprendere Binswanger alla luce di una teoria generale dell’esperienza in tanto che narratività; e ci stimola ad accostare la sua innere Lebensgeschichte alla histoire interne de la vie, come è stata sviluppata da Pierre Fédida (1982-83) e recentemente ripresa da Naudin e Coll. (1995). Invero, la storia interiore della vita privilegia la ricerca delle connessioni di sensoche instaurano legami intenzionali tra le esperienze vissute; qui Binswanger aveva riconosciuto appieno il merito di Freud nel fornirci una base razionale dall’interpretazione (intendendo qui l’interpretare – credo – come un quasi-apprendimento-per-esperienza). È in questo ambito ermeneutico che il caratteristico cammino di Binswanger – a zig-zag tra Husserl e Heidegger – si fa molto evidente, una volta deciso che i fondamenti della comprensione debbano essere freudianamente conformi all’esperienza. I legami fra percezione e comprensione si annodano strettamente fra loro, attorno al pesante pacchetto del problema dell’altro (la question de l’autrui); e va ben ricordato che tale problema è impregnato della pesante eredità europea, costituita dalla brillante carriera dell’Io, di questo Io che – come dice Aldo Masullo – è il fantasmadell’identità, di questo Io solitario, “imperatore cinese d’Europa” (Ortega y Gasset). Ma come rifiutare l’Io, come respingerlo in un limbo? L’Altro qui si interpone perentorio per restaurare il regno dell’Io, nonostante Heidegger ci dica che il Dasein non è affatto l’io, e che è difficile pensare un’esperienza personale, cioè fortemente ancorata all’ontico, nel contempo pensabile solo comeistorialità (Geschichtlichkeit).

L’io, allora, come cancro della psicologia? Ecco, con Binswanger, la necessità di pensare che il comprendere la storia di ciascuno come storia individuale non basta; ci vuole anche – anzi, soprattutto – il ristabilire questa storia del singolo in seno alle connessioni che ne fanno una storia comprensibile pour autrui, per l’altro-da-noi: storia nel senso del racconto che ogni paziente ci può fare dell‘intreccio delle proprie esperienze vissute e del percorso narrativo, del progetto (cfr. Herzog), che vi si rivela. Questa è appunto la grande narrazione, la storia interiore della vita; ed è una storia di decisioni, di scelte, nella quale attraverso la molteplicità dei vissuti si rivela l’unità di uno stile, la dimensione irriducibile di una narranza. Esperire questo scegliere dell’altro e – su tale base – interpretarne gli sviluppi e i dispiegamenti, mettere in relazione la storia interiore dell’altro (come egli ce la racconta) con altre storie di altri: ciò può rivelare connessioni di senso intime fra l’esperienza vissuta di uno psicotico (alienato o folle che dir si voglia) ed altre esperienze vissute da altri uomini (psichiatri inclusi): le connessioni di senso – sia intra- che inter-personale – come fondamento di ogni possibilità di significato.

Proprio qui la lettura di Wilhelm Schapp – di questo filosofo per il quale è la storia (narrazione) ad essere la prima, e non la percezione – ci si propone nel suo valore risolutamentenarrativo dell’esperienza, nella sua struttura narratologica, nel suointreccio, come vero e proprio principio organizzatore. È W. Schapp a fornirci delle valide chiavi – atte a comprendere l’unità narrativa di una vita – capovolgendo in un certo qual modo il primato husserliano (o meglio, del Binswanger husserliano) della percezione come elemento di partenza di ogni anamnesi. Naudin (1994) ci ha mostrato come la fenomenologia di Binswanger oscilli tra il modello scientifico del récit, racconto, narrazione (è anche la tastiera dell’organo in francese), e quello poetico-lirico; pur oscillando, egli tuttavia mi sembra insistere più sull’unità narrativa di una vita e quindi organizza il suo racconto attorno allo svolgimento (déroulement) lineare di un tema.

Binswanger, ad esempio, mostra come lo sviluppo di un delirio può esser sia conseguenza di un processo (nel senso psicopatologico jaspersiano), sia un momento logico nell’unità narrativa di una vita: unità narrativa, intreccio, plot, che egli chiama un progetto di mondo (Weltentwurf, cfr. Herzog). Nel suo racconto, la storia di una malattia viene messa in connessione, in ogni momento, con la storia di una vita.

Lo studio binswangeriano dei casi ha la struttura stessa di un récit de fiction, denso e a rete. Ci si potrebbe allora chiedere: è forse questo un carattere artificiale costruito attorno a un’unità narrativa, quindi ben lontano dalla dimensione pratica di ogni storia clinica di malati mentali o quant’altro? Io invece ritengo che nulla di tutto ciò sia più autenticamente prossimo alla clinica. E invero la proposta fenomenologica di Wilhelm Schapp riesce a illuminare in modo davvero intimo proprio quello che caratterizza l’esperienza clinica, forse a illuminarlo sotto una luce nuova. Il suo filo conduttore non è tanto la percezione (husserliana) dellacosa, quanto il suo prioritario sorgere nelle storie, nellenarrazioni, negli intrecci. Diversamente dal romanzo – e lo fa ben notare Ricoeur, in “Soi meme comme un Autre”, 1990 – che si dispiega in un intrigo di un mondo proprio, conchiuso, qui – in psichiatria – le storie vissute dagli uni sono necessariamente incastrate nelle storie vissute dagli altri: incastrate e aggrovigliate (enchevêtrées, come dice Ricoeur), e aperte alle due estremità. L’esperienza clinica procede a zig zag nel seno stesso di questo aggrovigliamento, di questo plotting, del restare impigliato in storie (1992), empêtré dans des histoires. Una stretta passerellaconnette le storie e il mondo esterno: appunto qui è il luogo delle configurazioni che Schapp chiama le choses-pour, la Wozuding, che J. Greisch chiama le Verstrickungen (1992), l’intrigarsi,l’impigliarsi in una rete, una rete derivante dal contatto tra i rispettivi universi mentali, in un orizzonte, che è quello delle storie, del plotting.

Riassumere il testo di Schapp senza snaturarlo è un gran rischio. Ci dovrò provare in poche righe.

Il suo concetto fondamentale è la Wozuding, la cosaper: la cosa non va presa nella sua singolarità percettiva, ma “nellaconnessione del contesto in cui essa si trova”. Allora il termine che egli qui usa non è “percezione”, ma è auftauchen, direi: “sorgenza, emergere, nascenza”.

Le cose-per, le Wozudingen, sorgono con le loro determinazioni non in un presente puntuale, ma in connessione con un passato, una storia, un’età, che sono anche presente, cioè qui-ora. In tal modo, il passato sorge continuamente all’orizzonte, e fa parte dell’orizzonte di ogni cosa-per, dell’orizzonte come rete di significati, in cui si inscrive l’attività dell’uomo. La materia non sorge o si costituisce che mediante la cosa-per e diviene comprensibile – per Schapp – solo a partire da questo cerchio.

Schapp capovolge dunque il primato della percezione; laWozuding, la cosa-per, la chose-pour (come ben dice Jean Greisch), che deborda ampiamente il campo degli utensili, non la incontriamo nella percezione, ma nella storia stessa: ciò che caratterizza la cosa-per è il suo sorgere, emergere, pro-porsi insieme con una storia, tutt’uno con una narrazione (preferirei il termine “narranza”, più ondivago). Per Schapp, al di fuori dellestorie, la cosa (sia come utensile che come oggetto culturale), non sarebbe nulla. In tal senso, la percezione (o l’allucinazione) viene a significare qualcosa solo in quanto è inserita in storie, in tessuti narrativi: “Il centro di gravità dell’allucinazione non sembra trovarsi altro che nella storia allucinata”: è l’impigliamento dell’allucinato. Ecco la tesi di fenomenologia di Schapp, sulla quale – secondo me – si fonda ogni narratologia: nell’uomo la storia prende il posto della percezione.

Importa allora – e importa radicalmente – vedere come gli altri si impiglino nelle loro storie; è proprio questo che cerchiamo di comprendere allorché parliamo di comprendere l’altro-da-noi. E ogni storia ci appare presto avere un orizzonte, una connessione con altre storie, senza un inizio e una fine: ogni storia possiede una connessione vivente con altre storie.

Questo della connessione vivente mi pare essere il filo conduttore della filosofia narrativa di Schapp, filo che collega – in certo qual modo – il filosofo allo psicopatologo Binswanger. La storia di un uomo, la sua storia intima, può estendersi anche a dismisura verso colui che l’ascolta, e intrecciarvisi e impigliarvelo. In vero, narrazione e ascolto non sono riducibili a mera trasmissione d’informazione, ma fanno a loro volta esse stesse parte inscindibile di una storia: c’è un vero e proprio passa-parola, che stabilisce nuove connessioni viventi: non c’è una storia isolata, tutto è narrazione di connessioni viventi.

Ma c’è anche, dice Schapp, un auto-impigliarsi, un impigliarsi in storie soltanto in prima persona, storie che sono costitutive del nostro essere: ognuno di noi sempre resta impigliato, invischiato (a volte, anche ingarbugliato) in numerose storie passate, il cui intreccio sovente è a mala pena rintracciabile. Eppure, a ben riflettere, noi possiamo attingere il nostro fondo soltanto attraverso le nostre proprie storie. Non si tratta qui – si badi bene – di sola introspezione; si tratta piuttosto di scoprire il nostro conficcarsi e immergersi nelle nostre storie, intuirlo, a volte seguendolo a tastoni, a volte costruendolo con l’ausilio dell’immaginario. Il problema diviene allora l’unità nelle varie storie, nelle varie autonarrazioni: le storie che non si accatastano l’una sull’altra, come un mucchio di pietre o un ponteggio, ma piuttosto evocano l’immagine dell’albero, con i suoi germogli in attesa del proprio sviluppo e dell’intrico dei rami. Le storie, le narrazioni hanno una direzione di crescita: in ogni narranza, in ogni atto narrante è già predisposta la narrazione da venire, con la sua tessitura propria, conforme alla direzione di crescita e ai venti che ne modellano il piegarsi, e conforme alla capacità di ripresa, alla resiliency.

Ecco il racconto che trasforma, che continuamente sopravanza (anticipa) se stesso e continuamente si rivolge indietro; ma non nel tempo dell’orologio: il passato e quel che ha da venire sono, ciascuno a suo modo, presenti nell’orizzonte della storia (narrazione), risultanti da un contesto significante, secondo una direzione univoca di crescita, di itineranza, che però non indica mancanza di legami (Cyrulnik).

A me pare che la concezione delle connessioni viventi che fanno le storie interiori di vita, l’idea degli intrecci che ne formano la contestura, faciliti un’altra via di accesso a quello che la psicoanalisi chiama “inconscio” (come ben ci mostra Ravasi Bellocchio, in un suo mirabile contributo): appunto l’accesso offertoci dalla narrativizzazione in cui ogni relazione si innicchia. Questo ci consente di comprendere come il racconto (le récit) del nostro passato sia un’anticipazione, un’intenzione di andare a cercare nella nostra memoria qualche ricordo (diceva Paul Valéry “le souvenir de l’avenir“) per comporne una narrazione: un racconto da indirizzare agli altri, ma anche a noi stessi. Ciò significa che ogni racconto, come dice Cyrulnik, è una co-produzione (pag. 163).

Ecco, allora, il co-involgimento nostro con le storie dei nostri pazienti: è il coinvolgimento nel Noi (la Wirheit di Buber). Lasciando da parte le implicazioni pratiche di ciò (cfr. il mio “Dall’alienità all’alterità: lo psicotico dall’istituzione totale alla comunità”, Bologna, gennaio 1999), insisterei piuttosto, parlando di coinvolgimento, sul ritorno alla fenomenologia comprensiva come pensiero delle connessioni viventi, proprio secondo la concezione dell’analisi narrativa di Wilhelm Schapp.

È in questo senso che Schapp evoca le storie del malato di mente, “storie che sovente sono, in sé, ancora piene di senso e che si ricollegano le une alle altre”: dall’alcôve obscure des souvenirs, di Baudelaire, a le glacier des vols qui n’ont pas fui, di St. Mallarmé, e à la recherche du temps perdu, di Proust.

Ecco allora l’importanza che ha per lo psicopatologo antropologicamente orientato il ricercare le eventuali convergenze tra la proposta fenomenologica di Schapp e l’analisi esistenziale di Binswanger, la quale andrebbe ri-assunta sotto la visuale di un’analisi strettamente narrativa: la comprensione, l’ermeneutica, le connessioni viventi, cioè la moltitudine delle storie che si connettono tra loro. Storie, non oggetti, nel senso che l’oggettoassume senso soltanto nella storia; e l’oggetto in questo contesto non è altro che un derivato della cosa-per (la Wozuding).

Ripetiamo ancora una volta: esperire, nel senso di Schapp, non altro è che stabilire connessioni in seno a una storia intima di vita, è impelagarsi, essere-invischiato, è continuare un discorso illimitato a intreccio.

Il quasi-esperire, di cui parla Binswanger a proposito di quell’interpretare che è proprio della psicoanalisi, è anch’esso un atto che non può esser còlto al di fuori del racconto. Niente si dà di esteriore alla storia, al racconto. In tal senso, allo stesso titolo della psicoanalisi, anche l’analisi esistenziale – si pensi a Medard Boss – è un’analisi narrativa: questa espressione è molto criticabile, ma non ne ho trovato un’altra migliore.

Peraltro, questa analisi narrativa mantiene ulteriormente la sua ambiguità ove ci si chieda se essa sia (o sia anche) un metodo terapeutico. C’è un narratore, c’è un ascoltatore, c’è un coinvolgimento, un vicendevole impigliarsi in una narrazione; l’aspetto fenomenico della seduta, del colloquio, non esiste al di fuori della sua struttura, della sua configurazione narrativa(repetita juvant!). La psicoterapia (e mi pare che qui Schapp abbia pienamente colto nel segno) è una variante del colloquio narrativo.

Blankenburg (1965) ha saputo descrivere come pochi altri psichiatri la radicalità dell’auto-impigliarsi, da lui intesa come sottomissione a un tema, divenuto autonomo, indipendente dalla storia interna di una vita: è un orizzonte di chiusura, una zona perenne di penombra, incomprensibile (Jaspers), proprio perché solo la comprensione, stabilendo connessioni viventi, è apertura ad altri campi, ad altre storie. È evidente qui una precisa riformulazione del compito dello psichiatra: col colloquio, con l’entretien, con la connessione, egli deve trovare e instaurare un accesso ad altre storie, ad altre narratività, ad altre significanze, in questo modo riaprendo connessioni viventi nell’ambito di una dialogicità, di un vicendevole impigliarsi, di un co-empêtrement(Fédida).

In tal senso accedere alla dimensione narrativa di una storia è aprire il campo ad un comprendere che non è più soltanto il comprendere jaspersiano; articolare l’analisi esistenziale sul piano narrativo è un agire consapevole e fondante che vuol sottolineare l’importanza dell’analisi delle connessioni viventinell’intimità dell’esperienza; ciò significa raccontare delle storie vissute e imparare a coglierle nel loro esser-così. Quel coinvolgersi e impigliarsi nelle storie, in multiple connessioni – come ci indica W. Schapp – significa che le cose-per in tanto valgono in quanto sorgono in una narrazione e in funzione di essa. L’analisi esistenziale, e anche quella psicoanalitica, vanno riconsiderate come un’analisi strettamente narrativa con la propria sintattica, semantica e pragmatica. Prescindere da ciò, oggi, appare alquanto ingenuo e, forse, molto fuorviante.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Arrigoni M.P. – Barbieri G.L., Narrazione e psicoanalisi, Un approccio semiologico, Milano, Cortina, 1998.

Benjamin W., Il narratore, in: Angelus Novus, Saggi e frammenti, (a cura di R. Salmi), Torino, Einaudi, 1995 (pagg. 247-274).

Berger P.L. – Luckmann T., The social Construction of Reality, Doubleday, New York, 1966 (tr. ita.: La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969).

Bertrand P., L’oubli, Révolution ou mort de l’histoire, Paris, P.U.F., 1975.

Binswanger L., Daseinsanalytik und Psychiatrie, in “Nervenarzt”, 22, 1-10, 1951.

Binswanger L., Daseinsanalyse und Psychotherapie, in “Zeitschrift für Psychotherapie und med. Psychol.”, 4, 241-245, 1954.

Blankenburg W., Die Verselbstständigung eines Thema zum Wahn, in “Jahrbuch für Psychol., Psychother., und med. Anthropologie”, 13, 137-164, 1965.

Buber M., Incontro, Frammenti autobiografici, (a cura di D. Bidussa), Roma, Città Nuova, 19982.

Callieri B., Psicopatologia ed Esistenzialismo, in “Rassegna di studi psichiatrici”, 41, 1132-1144, 1952.

Callieri B., Considerazioni su due casi di reazione neurotica durevole da spavento, in “Rivista di Neurologia”, 24, 493-. . . ,1954.

Callieri B. – Frighi L., Linguaggio e teoria della comunicazione, in “Rivista sperim. di freniatria”, 81, 539-565, 1957.

Callieri B. – Frighi L., Aspetti della comunicazione verbale degli schizofrenici, in “Rivista di Psicologia”, 51, 3, 1-18, 1957.

Callieri B., Aspetti antropologici dell’incontro: il Noi tra psicoanalisi e metafisica, in “Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria”, 57, 477-485, 1996.

Cyrulnik B., Les enfants sans lien, in: J. Aïn, Errances, Paris, Érès, 1996.

Cyrulnik B., Un merveilleux malheur, Paris, Odile Jacob, 1999 (pag. 163).

Di Petta G., Il mondo sospeso, Fenomenologia del presagio schizofrenico, Roma, Edizioni Universitarie Romane, 1999.

Di Petta G., Il caso Leila, Milano, Feltrinelli, in corso di stampa.

Fédida P., Crise et Chronicité dans l’histoire interne d’une vie, in “Psychanalyse à l’Université”, I, 27, 359-385, 1982; ibidem, II, 31, 355-401, 1983.

Good B.J., Narrare la malattia, Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente (1994), Torino, Edizioni di Comunità, 1999.

Greisch J., Empêtrement et Intrigue, Une phénoménologie pure de la narrativité est-elle concevable?, in: Schapp W., Op. cit., 239-275.

Heidegger M., Einführung in die Metaphysik, Tübingen, Niemeyer, 1966, (tr. ita.: Introduzione alla metafisica, Masi (ed.), Milano, Mursia, 1968).

Herzog M., Weltentwürfe Ludwig Binswangers phänomenologische Psychologie, Berlin, W. de Gruyter, 1994.

Kleinman A., The Illness Narrative: suffering, healing, and the human Condition, New York, Basic Books, 1988.

Martini G., Ermeneutica e narrazione, Un percorso fra psichiatria e psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.

Masullo A., Il tempo e la grazia, Roma, Donzelli, 1995 (ivi: cap. 13, L’invincibile oniricità della vita).

Masullo A., “Io”: il fantasma dell’identità, in “Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane”, 2-3, . . . – . . .,1995.

Munari Poda D. (ed.), Il volto dell’altro, Milano, La vita felice, 1999.

Mura G., Ermeneutica e verità, Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione, Roma, Città Nuova, 19972 (specialmente il cap. 4.8).

Naudin J., Le Style phénoménologique en Psychiatrie, in “L’art du Comprendre”, 1, 23-25, 1994.

Naudin J. – Azorin J.M. – Giudicelli L. – Dassa D., Binswanger avec Schapp, Analyse existentielle ou analyse narrative?, in “Évolution Psychiatrique”, 60, 3, 575-591, 1995.

Panse F., Angst und Schreck, Thieme, Stuttgart, 1952.

Ravasi Bellocchio L., Come il destino, Lo sguardo della fiaba sull’esperienza autistica, Milano, Cortina, 1999.

Ricoeur P., Temps et récit, Paris, Le Seuil, I-III, 1983, 1984, 1985.

Ricoeur P., Soi-même comme un Autre, Paris, Le Seuil, 1990.

Rotondo A., Passaggi: antichi vincoli, nuovi legami, in: Il volto dell’altro (ed. D. Munari Poda), Milano, La vita felice, 1999, pagg. 103-126.

Schapp W., . . . , . . . , . . . , . . ., (tr. fr.: Empêtrés dans des histoires, L’Être de l’Homme et de la Chose, J. Greisch (ed.), Paris, Èditions du Cerf, 1992).

Smorti A., Il pensiero narrativo, Firenze, Giunti, 1994.

Smorti A., Il Sé come testo, Firenze, Giunti, 1997.

Weinrich H., Lete, Arte e critica dell’oblio (a cura di F. Rigotti), Bologna, Il Mulino, 1999.

Williams G., The Genesis of chronic Illness: narrative Reconstruction, in “Sociol. of Health and Illness”, 6, 175-200, 1984.

Ti Piace? Condividilo!

Comments are closed.