Category: Articoli Psicoterapia

L’attenzione in psicoterapia cognitivo-comportamentali

Giuseppe Sacco
Istituto di Psicologia
Universita degli Studi di Siena

1. INTRODUZIONE

Ognuno sa cosa sia l’attenzione. E l’acquisizione da parte della mente, in una forma chiara e vivida di uno di quegli innumerevoli oggetti o serie di pensieri,
simultaneamente possibili. La focalizzazione, la concentrazione della
coscienza, costituiscono la sua essenza. Essa implica il ritrarsi da qualche cosa per rivolgersi efficacemente ad altro.) (W. James, 1890).

Abbiamo voluto iniziare con una citazione di W. James sia perche la
consideriamo una buona introduzione al nostro argomento, sia per attribuire un omaggio a un importante autore dello scorso secolo che viene pero spesso trascurato, nonostante i suoi lavori siano tuttora attuali e per molti versi
ancora stimolanti.
Come si puo vedere il concetto di «attenzione» e uno di quegli argomenti che da vecchia data sono stati affrontati con interesse dagli studiosi. E come tale ha subito numerose vicissitudini .
I filosofi e gli psicologi dello scorso secolo lo consideravano un concetto
centrale, ponendo spesso l’accento, come lo stesso James, sulla selettivita del processo di elaborazione.
Tuttavia, con la nascita del Comportamentismo nel XX secolo il concetto di
attenzione, come tutti gli altri concetti di tipo «mentalistico», e stato del tutto accantonato, finche non e ritornato alla ribalta negli anni ’50, in particolare col lavoro di Broadbent “Percezione e Comunicazione ” (1958).
Da allora si e cercato di ridefinire e circoscrivere il concetto di «attenzione».
Altre definizioni hanno posto l’accento sulla capacita di selezionare parte delle stimolazioni in arrivo, oppure, per esempio, come sinonimo di
concentrazione (Moray, 1969).
Tuttavia, nonostante le difficolta e la molteplicita delle definizioni esiste un accordo generalizzato su che cosa e che ci spinge a prestare attenzione ad alcuni stimoli piuttosto che ad altri: infatti, si sceglie di concentrarsi
prevalentemente sulle informazioni che al momento sono rilevanti per la nostra condotta e i nostri scopi attuali. Oppure su stimoli «catturanti»
l’attenzione, come per esempio, quelli che sono in conflitto con le nostre
aspettative, o con un carattere di novita, intensita, incongruita, etc. (Berlyne, 1960).

Fra le altre ipotesi interessanti proposte in tempi pill recenti abbiamo quella per cui l’attenzione costituisce l’insieme dei meccanismi e dei processi che la coscienza, intesa come un sottosistema che opera all’interno della mente per
«trattare» l’informazione, usa per controllare l’attivita mentale (Bagnara, 1984).

Negli studi pill recenti l’attenzione viene divisa in (Eysenk, Keane, 1995):

1) attenzione focalizzata e selettiva
2) attenzione distribuita o divisa.

La prima e quella che si studia attraverso la presentazione ai soggetti di due stimoli contemporanei, con la richiesta di elaborare e rispondere ad uno solo di essi. In questo modo si acquistano nozioni su come si selezionino alcuni
stimoli invece di altri; sulla natura dei processi selettivi e sugli stimoli che vengono trascurati.
Invece, l’attenzione distribuita si studia presentando almeno due stimoli in contemporanea, ma, questa volta con l’istruzione di elaborarli entrambi. In questo modo si acquistano nozioni sui limiti dei processi di elaborazione e sulle capacita attentive.
Uno dei grossi limiti della ricerca e costituito dal fatto che la quasi totalita degli studi prendono in considerazione l’attenzione agli “stimoli esterni”
trascurando cosi quasi del tutto l’attenzione agli “stimoli interni” (pensieri, immagini, emozioni, etc.).
In questo lavoro vogliamo invece proprio soffermarci sull’attenzione agli “stimoli interni” che in psicoterapia costituisce uno dei fenomeni di
importanza centrale.

II. L’IMPORTANZA DELL’ATTENZIONE IN PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

Abbiamo accennato alla scarsa considerazione attribuita dalla ricerca sull’attenzione agli «stimoli esterni». Al contrario, in ambito clinico
l’osservazione e lo studio dei processi attentivi del paziente orientati agli
«stimoli interni» diventa del tutto irrinunciabile.
Infatti, la conoscenza dei contenuti cognitivo-emotivo del paziente costituisce uno dei passaggi propedeutici fondamentali per una psicoterapia cognitivo-
comportamentale.
Per esempio, i pazienti con un symptom pattern di tipo fobico tenderanno a
selezionare pill probabilmente i loro processi attentivi verso l’elaborazione di contenuti interni di allarme e pericolo specialmente di tipo fisico; mentre i
pazienti con un symptom pattern di tipo depressivo tenderanno a dirigere la loro attenzione pill probabilmente verso contenuti interni di perdita,
separazione, esclusione, insuccesso, fallimento, etc.; oppure i pazienti con un symptom pattern di tipo «disturbi alimentari» tenderanno alla probabile
elaborazione selettiva di «stimoli interni» legati al cibo, alla fame, alla sazieta, alla linea, alle diete, all’aspetto fisico, etc.; mentre i pazienti con un symptom

pattern di tipo ossessivo orienteranno probabilmente la loro attenzione verso contenuti interni legati al dubbio, alla pulizia, alla sporcizia, alla ricerca
della perfezione, della verita assoluta, etc.
Il primo passo di strategia terapeutica in questo ambito consiste,
generalmente, proprio nell’aiutare il paziente a rendersi conto di queste sue modalita personali, attraverso l’esercitazione all’autosservazione in certe
osservazioni per lui critiche.
Solo successivamente sara possibile, in maniera graduale, aiutare il paziente a spostare e modulare i suoi processi attentivi verso altri contenuti o a
«processare» gli stessi contenuti secondo modalita alternative.

III. STRUMENTI DI VALUTAZIONE E DI AUTOVALUTAZIONE

Nell’ambito della strategia terapeutica di ristrutturazione e ri-orientamento dei processi attentivi assume un’importanza cruciale l’addestramento del
paziente all’autosservazione delle proprie modalita di elaborazione.
Uno strumento-tipo di autosservazione di cui ci si serve, fra i diversi a
disposizione, e costituito dalla famosa Scheda di Registrazione dei Pensieri Automatici (Vedi figura).
I pensieri automatici sono quei pensieri che vengono prodotti
spontaneamente e in modo automatico nelle varie situazioni della vita
quotidiana (Beck, 1976). Essi passano generalmente inosservati fintanto che i pazienti non vengono istruiti a fare attenzione ad essi. Attraverso
l’addestramento al ri-orientamento su di essi dell’attenzione ogni paziente (ma anche ogni persona comune) puo essere in grado di riconoscerli.
Fra le numerose caratteristiche dei pensieri automatici scoperti da Beck abbiamo la loro specificita rispetto alle situazioni, il loro stile abbreviato e telegrafico, la loro involontarieta e automaticita.
Il motivo fondamentale della loro importanza in clinica risiede nel fatto che
essi sono in stretta relazione (non di tipo causale) con le emozioni disturbanti del paziente (ansia, rabbia, tristezza, etc.), per cui la consapevolezza di essi
costituisce il primo passo per la loro eventuale modifica che, a sua volta puo beneficamente influenzare l’emozione disturbante.
Certamente, una psicoterapia non si esaurisce con la fase, seppur
fondamentale, dell’autosservazione. Infatti, una volta che il paziente ha
acquisito una buona capacita in tal senso si passa alla fase successiva in cui si esplorano le strutture di significato delle aree problematiche del paziente
(convinzioni e assunti di base, schemi, set o costellazioni cognitive). Anche in questa fase ci si puo servire di strumenti che aiutano il paziente a focalizzare la sua attenzione sulle sue modalita di elaborazione delle informazioni
interne, per esempio sulle immagini mentali prodotte spontaneamente o in alcune situazioni per lui problematiche. In tal caso, puo essere utile, per
esempio, l’uso del Q.M.I. edizione italiana (Sacco, 1994; in press) che aiuta a focalizzare l’attenzione del paziente sui suoi contenuti immaginativi e a
valutarli.
Altri strumenti di tipo self-report per la valutazione di schemi e costellazioni cognitive possono, per esempio, essere costituiti da batterie come il C.B.A.

(Cognitive-Behavioral-Assessment), le cui Scale permettono, tra l’altro,
l’indagine su nuclei cognitivo-emotivo-comportamentali di tipo clinico, come quello depressivo, fobico, ossessivo, etc. (Sanavio, et al., 1987).
Per l’esplorazione di eventuali problematiche di tipo “disturbi alimentari” possono essere utilizzati anche strumenti come l’E.A.T.- 40 (Cuzzolaro,
Petrilli, 1988) che fornisce delle indicazioni utili per comprendere l’esistenza o meno di specifiche modalita di direzione dei processi attentivi verso
contenuti relativi al cibo, alla fame, alla sazieta, alle diete, all’aspetto fisico, etc.

 

Registrazione giornaliera dei pensieri automatici

Data Situazione Pensieriautomatici Domandarelaprova Terapiaalternativa Re-attribuzione De-catastrofizzare
Descrivi gli eventi concreti che conducono ad emozioni spiacevoli 1Scrivi i pensieri automatici ,i sogni ad occhi aperti o i ricordi che precedono l’emozione2 Valuta la convinzione dei pensieri automatici0-100% Qual’e la prova? Qual’e un’opinione alternativa? In quali modi sto personificando, ipergeneralizzando, usando un pensiero del tipo ‘tutto o niente’ oppure sto facendo confronti,o saltando alle conclusioni ? Qual’e la cosa peggiore che potrebbe mai accadere?Anche se accadesse, cosa potrei fare?
Emozioni Risultato
Specifica se triste, arrabbiato ,ecc.2 Valuta il grado di emozione0-100% Rivaluta laconvinzione dei pensieri automatici0-100%Specifica e

valuta le successive

emozioni

0-100%

 

 

I) TERMINOLOGIAIV. METODI DI PSICOTERAPIA

Riteniamo opportuno, prima di entrare nel merito dell’argomento, di fornire alcune precisazioni sui termini usati in questo lavoro, in particolare sulle
parole “metodo”, “metodologia” e “tecnica”.
Per “metodo” si intende il criterio direttivo secondo cui si fa, si realizza o si compie qualcosa (Zanichelli, 1983). Sono usati come sinonimi: ordine,
procedimento, regola, norma, legge; mentre sono usati come contrari: confusione, disordine.
Per “metodologia” si intende: 1) parte della logica che ha per oggetto la
ricerca di regole o principi metodici che consentono di ordinare, sistemare, accrescere le nostre conoscenze; 2) dottrina filosofica che studia le tecniche di ricerca proprie di un determinato campo del sapere (Zanichelli, ibidem).
Per “tecnica” si intende: I) serie di norme che regolano il concreto
svolgimento di un’attivita manuale o intellettuale); 2) modo di lavorare, produrre, realizzare qualcosa.
Sono sinonimi: norma, regola, procedimento, metodologia, capacita, abilita, perizia, pratica.
Sono contrari: imperizia, inesperienza, incapacita.
Rispetto al nostro ambito di interesse specifico possiamo osservare come si parli pill frequentemente di “tecniche di terapia”, piuttosto che di “metodi”.
Anche se spesso questi due termini vengono usati come sinonimi (e abbiamo visto che in parte lo sono) noi preferiamo usare il termine “metodo” per una
serie di motivi che in parte accenniamo qui di seguito e in parte

svilupperemo nel prosieguo del nostro discorso. Ora possiamo sottolineare
come il termine “tecnica” possa risultare un po riduttivo o fuorviante perche nella terapia cognitivo-comportamentale (ma questo vale anche per altri
approcci) si mira a fornire al paziente dei principi metodici nuovi che gli
possono consentire di riordinare, sistematizzare, ristrutturare e accrescere la sua autoconoscenza, nell’ambito di sistemi parzialmente o totalmente nuovi di significato personale.

2) TEORIE CLASSICHE
Negli approcci terapeutici cognitivo-comportamentali classici (la RET di Ellis, la terapia cognitiva di Beck, etc.) quelle che vengono comunemente chiamate “tecniche” sono mirate principalmente alla modificazione delle idee irrazionali o delle convinzioni distorte sottese alle emozioni disturbanti (per es. Ellis,
1962; Beck, 1976; Sacco, 1989).

3) TEORIE SUCCESSIVE
Successivamente le “tecniche” in terapia cognitivo-comportamentale sono state riformulate come tattiche da utilizzare all’interno della strategia
terapeutica miranti a sviluppare una graduale autoconsapevolezza (Sacco, 1989).

4) APPROCCI PIU RECENTI
Recentemente e stato abbozzato un nuovo contesto teorico entro cui inserire le “tecniche” di terapia.
Tale modello, ancora in fase di elaborazione, e stato definito modello infodinamico (o “psicologia delle trasformazioni”) (Sacco, 1994; 1998, in press).

5) MODELLO INFODINAMICO (PsicoIogia deIIe trasformazioni)

I) Generalita
L infodinamica dei sistemi cognitivi (o psicologia delle trasformazioni) puo definirsi come quella disciplina la quale studia le leggi che regolano
l’organizzazione e la trasformazione dei processi di conoscenza dei sistemi
stessi, facendo riferimento, oltre alle leggi della psicologia e alle discipline ad essa collegate, per analogia, alle leggi della termodinamica (Sacco, ibidem.;
1998, in press).
L’infodinamica si occupa delle proprieta dei sistemi cognitivi, delle variazioni che si presentano quando il sistema passa da uno stato ad un altro e delle trasformazioni quanto-qualitative delle informazioni.
L’informazione costituisce l’unita di base delle strutture di significato che
complessivamente costituiscono il sistema di conoscenza individuale che si organizza attraverso l’elaborazione delle informazioni.

II) Proprieta
I sistemi cognitivi presentano 4 proprieta fondamentali con un postulato di base. Quest’ultimo asserisce l’ impossibilita di non elaborare informazione.

Le 4 proprieta sono:
1) eIaborativa (elaborazione di input esterni);
2) infoproduttiva (autoproduzione e selezione delle informazioni);
3) autoconsapevoIezza (qualita della coscienza);
4) autorganizzativa (capacita di organizzare le informazioni secondo strutture di significato uniche e irripetibili).
Tali proprieta sono fra loro interdipendenti e interagenti e sono collegate da relazioni sia strutturali che funzionali.

III) Variabili di stato
Analogamente a quanto accade per ogni altro sistema, anche per la
descrizione e la spiegazione dei processi che avvengono nei sistemi cognitivi e utile fissare un numero di parametri che possono definire univocamente lo
stato del sistema stesso. I parametri che definiscono e caratterizzano lo stato di un sistema vengono chiamati “variabili di stato”. Tali variabili sono:
1) entropia (grado di “disordine” del sistema)
2) veIocita (quantita di informazione elaborata nell’unita di tempo)
3) compIessita organizzativa (quantita e qualita di connessioni fra le informazioni)
4) coerenza organizzativa (livello di coerenza logica fra i significati costruiti)
5) dissipazione (quantita e qualita di informazione dispersa)
6) capacita (quantita complessiva di informazione elaborata)
7) profondita (quantita di elaborazione con cui e stata trattata un’informazione o una costellazione di informazioni).

IV) Stato di equilibrio
Uno stato di equilibrio e caratterizzato dal fatto che non si puo notare alcuna tendenza da parte del sistema a passare in uno stato diverso. Quando il
sistema passa da uno stato ad un altro si dice che esso attua una
trasformazione (vedi schema ).
Un sistema tende a modificare il suo stato di equilibrio quando avverte una discrepanza o una dissonanza all’interno delle sue strutture di significato.
Tali dissonanze possono produrre delle interferenze (rumore) nel sistema che, quando superano una certa soglia individuale (soglia di scompenso), possono a loro volta condurre a delle anomalie funzionali e vengono comunque
avvertite con una sensazione soggettiva di disagio e malessere da parte del sistema stesso.
Tale disagio puo condurre alla ricerca di un nuovo stato, di un nuovo livello di organizzazione del sistema, il cosiddetto “order through fluctuations”
(Prigogine, 1976).

STATO A «« STATO B «« STATO C
  • Equilibrio in formazione elaborata/non elaborata (bassa entropia)

 

 

 

  • Nessun rumore percepibile dal sistema

 

 

 

  • Integrazione cognitivo-emotivo-comportamentale(c-e-c)
Rottura equilibrio 

Aumento entropia

 

 

 

Crescita rumore

 

 

 

 

 

Rottura integrazione

I)  Livello cognitivo: pensieri e immagini

II)  Livello emotivo: malessere

III)  Livellocomportamentale: ricercasoluzioni

Acquisizione nuovo equilibrioDecremento rumore

 

 

 

Decremento rumore

 

 

 

 

 

Nuova integrazione(c-e-c)

 

 

 

 

 

 

 

Nuovo Stato Equilibrio Dinamico

STRUTTURA DISSIPATIVA INIZIALE(SD1) «« STRUTTURA DISSIPATIVA INTERMEDIA(SD2) «« STRUTTURA DISSIPATIVA FINALE(SD3)

Si deve a I. Prigogine (1981,1982,1986) il concetto di sistemi o “strutture dissipative autorganizzate lontane dall’equilibrio”.
In termodinamica una “struttura dissipativa” e uno stato di ordine dinamico che puo essere mantenuto solo mediante un metabolismo, cioe mediante
una continua dissipazione di energia, dando origine a trasformazioni periodiche sincronizzate come avviene, per esempio, nel caso della
distribuzione dell’eccitazione nella rete e nelle cellule nervose, dove tali trasformazioni si diffondono ai vari livelli dell’intero sistema.
Tali strutture, per la loro azione di modulazione, richiedono una certa stabilita morfogenetica e sono, dunque, possibili dove e presente una cooperazione fra interazioni statiche e dinamiche, come nel caso degli organismi umani (Arcieri, 1988).
Per la formazione delle strutture dissipative sono necessarie una serie di condizioni di base:

I) e indispensabile trovarsi di fronte a “sistemi aperti” e percio lontani dall’equilibrio;

2) l’ordine nell’ambito delle trasformazioni presenti continuamente in un
sistema dinamico, funge da catalizzatore verso un livello di ordine superiore;

3) necessita periodica di energia proveniente dall’esterno pena il collasso del sistema stesso;

4) irreversibilita dei processi di costituzione e disfacimento dell’ordine
sistemico (impossibilita a ricostituire lo stato originario) (Arcieri, ibidem).

Queste condizioni di base, valide per i sistemi termici, sono valide anche per i sistemi biopsicologici e, in particolare, per i sistemi cognitivi.
In tal caso, va tenuto conto che non interessano solo i processi termici o energetici, ma anche i processi di elaborazione delle informazioni.
La relazione fra processi energetici e informazionali, in altre parole fra
cognizioni ed emozioni, in riferimento al concetto di «struttura dissipativa» e affrontata in altra sede (Sacco, 1998, in press).
Considerato cio abbiamo che i sistemi cognitivi, analogamente ai sistemi termodinamici, presentano le seguenti condizioni:
I) sono “sistemi aperti” lontani dall’equilibrio (Sacco, Sperini, 1997);

2) tutti i processi di ordinamento delle informazioni tendono ad assumere un andamento «autocatalitico”, nel senso che un certo ordine puo agire, a sua
volta, da catalizzatore verso un grado di ordine superiore;

3) necessita di elaborare informazioni pena il collasso del proprio ordine;

4) irreversibilita dei processi di organizzazione delle informazioni (impossibilita di ricostituire lo stato antecedente).

6) i metodi dl psicoterapia nel contesto teorico infodinamico

Secondo l’approccio teorico infodinamico, i metodi di psicoterapia sono principalmente finalizzati alla modulazione dei passaggi e delle trasformazioni da uno stato dissipativo dinamico a quello successivo.
In tal modo, i metodi di terapia sono mirati a “sviluppare una graduale
consapevolezza di se” attraverso il ri-orientamento e la ristrutturazione dei processi attentivi, rispetto a quelle informazioni sul se («stimoli interni») che non erano state elaborate in maniera adeguata per il sistema. Inoltre
possono costituire dei validi strumenti di gestione e fronteggiamento delle
situazioni di turbolenza create dall’incremento di entropia che si verifica negli
stati trasformativi dinamici.
E’ proprio in tal senso che e pill opportuno parlare di “metodi” piuttosto che di “tecniche”, in quanto si tratta dell’apprendimento di nuove modalita di

gestione delle fasi di passaggio e di trasformazione da uno stato dissipativo dinamico a quello successivo. Tali modalita si presentano come delle vere e proprie nuove configurazioni metodologiche che dovrebbero consentire al
paziente l’acquisizione di un nuovo metodo per affrontare le sue
problematiche esistenziali attraverso una diversa Weltanschaung.
Da cio si possono ricavare una serie di “concetti-guida”, nell’uso dei metodi terapeutici nel contesto infodinamico, che possiamo dividere in negativi e
positivi. Tra quelli negativi, che cioe possono considerarsi controindicazioni, quindi modalita da evitare, abbiamo (Sacco, 1992):

1) I’uso meccanico e ctecnicistico”;
2) I’uso passivo e spersonaIizzato;
3) I’uso avuIso daI contesto reIazionaIe;
4) I’uso secondo Ia “concezione farmacoIogica”.

In questi 4 punti strettamente collegati fra loro viene espressa l’inutilita, in alcuni casi la dannosita, di un uso stereotipato, spersonalizzato e senza
coinvolgimento partecipativo da parte del paziente (il cosiddetto “uso
farmacologico” dei metodi, presentati cioe analogamente ai farmaci, come un intervento “esterno” quasi deresponsabilizzato e meccanico).
Tra i “concetti-guida” positivi-propositivi dell’uso dei metodi terapeutici abbiamo invece:

1) I’uso coIIaborativo;
2) I’uso personaIizzato;
3) I’uso integrato neIIa reIazione;
4) I’uso secondo Ia concezione cumanistica”, voIto cioe aII’acquisizione da parte deI paziente di un valore metodologico aggiunto.

In questi quattro punti, anch’essi strettamente collegati fra loro, abbiamo la proposizione di una “filosofia” di impiego dei metodi psicoterapeutici.
Fondamentale risulta l’instaurazione di un “setting collaborativo” col paziente (Beck, 1985) che sara stimolato dal terapeuta attraverso il
coinvolgimento attivo all’apprendimento delle metodologie.
E’ evidente come in tutto cio risultano di importanza cruciale caratteristiche personali ormai classiche del terapeuta come: la competenza professionale; la credibilita; l’empatia; la sincerita e il vero interessamento ai problemi del paziente; l’accettazione del paziente; etc.
Tali caratteristiche funzionano da catalizzatori e facilitatori nella creazione del “setting collaborativo” che rimane una delle mete irrinunciabili del
processo terapeutico in generale e, in particolare, dell’efficacia dell’uso dei metodi stessi.
7) CLASSIFICAZIONE DEI METODI TERAPEUTICI

I) I ntroduzione

La classificazione e un’operazione che si compie in ogni disciplina scientifica con lo scopo di sistematizzare le informazioni disponibili in ogni settore.
Classificare, infatti, vuol dire ordinare per classi, tipologie, specie o categorie. Anche i metodi terapeutici sono stati variamente classificati, a seconda delle diverse esigenze di sistematizzazione.
Vedremo brevemente qui di seguito una classificazione classica e una pill recente con le diverse implicazioni a loro sostegno.

II) Classificazione classica
Gia nel 1979 Guidano e Liotti suddividevano le “tecniche” di terapia cognitivo-comportamentale in 2 gruppi principali: 1) tecniche di
autocontrollo; 2) tecniche di ristrutturazione cognitiva.
Pur essendo questa, come riconoscevano gli stessi autori, una divisione
principalmente didattica, avendo tutte le tecniche caratteristiche di entrambi i gruppi, le tecniche di autocontrollo presentano come bersaglio principale il
“sistema di rappresentazione” dell’individuo (dialogo interno, immagini);
mentre le tecniche di ristrutturazione cognitiva puntano prevalentemente al “sistema di convinzioni” individuale.
Secondo quest’ottica classificatoria fra le tecniche di autocontrollo erano incluse lo stress-inoculation e il self-instructional training; mentre fra le
tecniche di ristrutturazione sistematica trovavano collocazione la
ristrutturazione razionale sistematica e il problem-solving.

In un nostro lavoro successivo (Sacco, l989) avevamo incluso un sottogruppo particolare di tecniche di autocontrollo chiamato tecniche immaginative, che
erano prevalentemente mirate all’uso di immagini mentali.
Questo tipo di classificazione aveva senz’altro il pregio di essere utile per la sistematizzazione, in quanto semplice e fondamentalmente coerente col
modello proposto a quell’epoca dagli autori.
Tuttavia, il limite di tale classificazione e quello di essere tutta incentrata su elementi di sottosistemi in un modello “a blocchi”, trascurando o limitando la descrizione delle modalita di “processamento” delle informazioni, attraverso
l’impiego di unita prevalenti di codifica che risultano altamente individualizzate.
In altre parole, ci sembra pill utile avere a disposizione una classificazione
che tenga conto pill dei processi individuali di codifica (modalita di “trattare” le informazioni) piuttosto che del “blocco-bersaglio” su cui agisce il metodo. Tra l’altro, risulta evidentemente pill agevole identificare e distinguere una modalita, uno “stile di processamento” delle informazioni invece che
arrovellarsi su quale sottosistema quest’ultimo vada ad agire, essendo
un’impresa quasi disperata stabilire con precisione dove finiscono e dove iniziano i confini di un sottosistema.

III) Classificazione recente
Partendo da alcuni studi sui “codici” di elaborazione delle informazioni (teoria del “doppio codice”, Paivio, 1971; 1986; teoria del “triplo codice”,
Ahsen, 1977; 1984) abbiamo evidenziato altrove (Sacco, 1994) la presenza di

tre modalita elaborative principali:

1) il codice proposizionale che si serve di una modalita alfabetica o alfanumerica, con caratteristiche di elaborazione sequenziali;

2) il codice pittoriale (o immaginativo), che si serve di unita spaziali soggette all’elaborazione parallela;

3) di un codice psicosomatico che si serve delle modalita incrociate dei due codici precedenti collegandole e integrandole fra loro attraverso la
componente somatica. Da questa base abbiamo suddiviso i metodi di psicoterapia in tre gruppi:

1. metodi proposizionali

2. metodi pittoriali

3. metodi psicosomatici (o metodi olistici di autoesplorazione)
1. METODI PROPOSIZIONALI

I metodi proposizionali sono incentrati prevalentemente sull’uso del codice proposizionale che, in ambito clinico, corrisponde al dialogo interno.
I principali metodi proposizionali sono (Sacco, 1989):

I) stress-inoculation;
II) self-instructional training;
III) ristrutturazione razionale sistematica, etc.

Tali metodi tendono principalmente al ri-orientamento dell’attenzione sul dialogo interno del paziente che sara appunto addestrato a prestare
attenzione a cio che si dice mentalmente in quelle situazioni per lui critiche
e, successivamente, a prendere in considerazione l’esistenza di altri eventuali dialoghi interni (decentramento). Cosi, ad esempio, nel caso di un paziente
con problemi di ansia, invece di continuare a fissare la sua attenzione
soltanto su alcuni segnali provenienti dal proprio corpo (aumento battito cardiaco, sudorazione, tremore, etc.) egli la dirigera su cio che in quei
momenti gli verra in mente (pensieri, immagini); cio non soltanto lo “distrarra” dall’ansia ma lo aiutera anche ad ampliare la propria
autoconsapevolezza, oltre che ad affrontare la situazione critica con maggiori probabilita di miglioramento.

2. METODI PITTORIALI
l metodi pittoriali sono incentrati prevalentemente sull’uso del codice pittoriale (o immaginativo).
I principali metodi pittoriali sono (Beck, 1985, Sacco, 1989;1994):

I) turn-off;
II) ripetizione;
III) proiezione nel tempo;
IV) immagini simboliche;
V) facilitazione immagini indotte;
VI) sostituzione immagini;
VII) prova immaginativa-comportamentaIe
VIII) focalizzazione senso-motoria
IX) esposizione immaginativa prolungata etc.

Tali metodi tendono invece al ri-orientamento dell’attenzione sulle immagini mentali del paziente che sara addestrato, in questo caso, a centrare i suoi
processi attentivi alle proprie immagini nelle situazioni per lui problematiche e a modularle coordinandole col dialogo interno.
E’ evidente che i1 dialogo interno e le immagini mentali nella vita di tutti i giorni generalmente procedono in parallelo e percio e importante, quando possibile, addestrare il paziente ad utilizzare i metodi in maniera parallela.

3. METODI PSICOSOMATICI
Tali metodi costituiscono una particolare categoria che si serve dei due
codici proposizionale e pittorico combinati insieme, con la particolarita del
coinvolgimento diretto di organi, apparati e processi somatici (Sacco, 1994).
In tal caso i processi attentivi vengono canalizzati sulle capacita di
“autoguarigione” del corpo ponendo in risalto i processi riparativi e di recupero dell’organismo.
Questi metodi si servono, infatti, di un dialogo interno specifico, semistrutturato, che e affiancato da diversi tipi di immagini.
Una prima classe di immagini mentali e quella delle immagini metaforiche che rappresentano lo stato di malattia o le condizioni ad essa relative. Per es., un paziente con una colite ulcerosa puo visualizzare la sua malattia
come un vulcano che erutta roccia fusa e l’energia guaritrice come un temporale che porta torrenti di acqua fredda all’interno del vulcano,
spegnendo il fuoco e guarendo simbolicamente l’ulcera.
Un secondo tipo di immagini sono le immagini realistiche che costituiscono la visualizzazione di cio che accade effettivamente in una certa situazione. Per
es., un paziente con un processo infettivo in corso, puo visualizzare la scena dei suoi anticorpi che si preparano a muovere contro i batteri e li
distruggono.
Un altro tipo di immagini sono le immagini processuali che sono costituite dalla visualizzazione delle varie fasi della malattia del soggetto:
dall’insorgenza alla reazione dell’organismo allo stato patologico.
Infine, abbiamo le immagini della guarigione, che si incentrano sulla
visualizzazione dell’organo o dell’apparato ammalato che sono perfettamente guariti e funzionanti.
Anche se attualmente non si conoscono in maniera chiara i processi di “autoguarigione” dell’organismo e non si sono ancora ben comprese le

delicate e complesse interazioni “mente-corpo”, e possibile affermare che tali metodi possono rivelarsi, a volte, utili per sostenere e aiutare i pazienti ad
affrontare difficili situazioni di malattia in cui e necessario un forte supporto psicologico accanto a quello medico.
Tuttavia, al di la di queste situazioni, i metodi psicosomatici possono rivelarsi strumenti ancor pill utili e potenti se usati in parallelo con quelli
proposizionali e pittoriali. Infatti, per esempio, il ri-orientamento
dell’attenzione del paziente sul dialogo interno e sulle immagini risulta molto pill efficace quando sono coinvolti gli aspetti psicofisiologici, come di fatto
avviene nella vita di tutti i giorni, nella quale noi ci diciamo mentalmente delle cose (dialogo interno), esperiamo delle immagini (immagini mentali) mentre proviamo delle emozioni (attivazione psicofisiologica).

V. L’ATTENZIONE DELLO PSICOTERAPEUTA

Da quanto sopra detto si evince l’importanza cruciale, per lo psicoterapeuta di conoscere le proprie modalita di funzionamento cognitivo-emotivo e gli
schemi di relazione interpersonale.
Infatti un terapeuta che non conosce, almeno per gli aspetti pill rilevanti, cio che avviene «in casa propria» molto difficilmente potra essere di aiuto al
paziente a riconoscere cio che avviene nella sua «casa».
Senza contare per altro il grosso rischio di commettere errori tali da danneggiare in modo pericoloso il gia precario equilibrio mentale del paziente.
E’ per questo che parte fondamentale della formazione dei futuri terapeuti e, a nostro avviso, costituita da un’analisi didattica personale, da compiersi
sotto la guida di un trainer esperto, nella quale il trainee dovrebbe
apprendere a saper cogliere i propri pattern di elaborazione dell’informazione, (modulazione dei processi attentivi e percettivi personali; sistemi di
rappresentazione, etc.), ad approfondire l’autoconoscenza delle attitudini
relazionali e dei meccanismi di attivazione delle proprie modalita emozionali.
In generale, va aiutato il trainee ad autoesplorare i costrutti e le convinzioni
sul Se e sui rapporti interpersonali; le attribuzioni e le aspettative; gli schemi emotivi personali.
In particolare, risulta cruciale l’analisi cognitivo-comportamentale dei
pattern di attaccamento verso le figure significative; dei pattern di lotta, fuga ed evitamento; dei pattern di espressione della paura, della rabbia, della
tristezza e della gioia, e degli schemi interpersonali in generale.
L’atteggiamento affettivo-relazionale del terapeuta, cioe la capacita di
prestare attenzione e gestire i suoi atteggiamenti emotivi nella relazione
terapeutica, svolge un ruolo centrale nell’analisi e revisione delle convinzioni e delle aspettative del paziente sui rapporti interpersonali .
E’ fondamentale, per esempio, in un paziente con convinzioni di
autoindegnita personale, non rinforzare i suoi atteggiamenti negativi con atteggiamenti svalutativi e rifiutanti; oppure, in una paziente con
un’aspettativa del giudizio negativo altrui evitare atteggiamenti esaminatori e giudicanti.

Ma per rendere possibile quanto sopra accennato e necessario che il futuro terapeuta sperimenti direttamente su se stesso, sulle proprie modalita di
funzionamento, con le proprie problematiche di vita, la metodologia terapeutica che si appresta ad apprendere, a cominciare proprio
dall’esperienza di essere lui stesso un paziente beneficiario della psicoterapia.
E’ in questo modo che l’allievo puo esperire direttamente gli aspetti
qualificanti del vissuto dell’«essere-paziente» in relazione alla figura del terapeuta, provando in prima persona eventuali emozioni di paura,
vergogna, rabbia, abbandono, etc. che caratterizzano la relazione terapeutica, come del resto tutte le relazioni umane.
Attraverso questa sperimentazione personale l’allievo potra essere stimolato all’autoscoperta di nuovi aspetti di se che gli erano sconosciuti e avra altresi l’opportunita di unire e comporre l’esperienza didattica di tipo teorico-
dichiarativo con quella pratico-esperenziale, vera chiave di volta del pieno compimento di un percorso formativo completo che unisca e amalgami fra
loro tutti gli elementi costitutivi classici della formazione: sapere- saper fare- saper essere.

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Perls e Whitaker: un confronto tra la terapia della Gestalt e la terapia simbolico-esperienziale

SessuologiaGiampiero Morelli

Psicologo, Psicoterapeuta

Introduzione

Ad un primo sguardo il confronto tra il pensiero e l’azione terapeutica di Perls e Whitaker sembra evidenziarne soprattutto le differenze e l’inconciliabilità dei modi di pensare la psicoterapia e le relazioni umane. Perls sembra privilegiare l’individuo, mettendo al centro del suo modello l’autorealizzazione, l’individuazione, l’autosostegno: “io sono io e tu sei tu. Io faccio la mia cosa e tu fai la tua cosa” mentre Whitaker sembra mettere l’enfasi sul sistema, sul gruppo: “l’individuo non esiste”. Dal sistema familiare si passa a sistemi sempre più ampi: la famiglia estesa, la cerchia dei parenti, gli amici e tutti quelli che hanno una relazione con il sottosistema originario.
In terapia, Whitaker tende ad utilizzare un linguaggio indiretto, un atteggiamento non direttivo, e rivolge la sua attenzione al mondo del simbolico e dell’inconscio, Perls tende invece a porre l’enfasi sulla consapevolezza e l'”essere in contatto”, utilizza un linguaggio esplicito e diretto, è iperdirettivo e “invadente”.
Queste differenze sono state tuttavia amplificate e cristallizzate a partire da una lettura volta alla semplificazione e banalizzazione del pensiero di questi due autori in modo tale che, all’insegna di una eccessiva attenzione rivolta ad affermazioni volutamente provocatorie, si è spesso smarrita la complessità sia dell’approccio gestaltico che della terapia simbolico-esperienziale. In realtà, ad una lettura più attenta emerge, quasi in filigrana, un terreno, uno spazio di convergenza che tocca il processo terapeutico nei suoi aspetti sostanziali. Per esempio l’attenzione ai processi corporei e al non verbale, all’esperienza attuale e al “qui ed ora” ed in particolare al rilievo dato all’umanità, integrità e responsabilità del terapeuta.

Perls e Whitaker: la dialettica dell’esistenza

Un primo dato che accomuna Whitaker e Perls è l’influenza su di loro di diversi autori e scuole di pensiero. Entrambi psichiatri, si muovono inizialmente all’interno di un’approccio psicodinamico e

sono significativamente influenzati dal pensiero di due grandi eretici della psicoanalisi: Otto Rank, ancora oggi, specialmente in Italia, poco conosciuto, il quale evidenzia la centralità nel processo terapeutico della relazione tra paziente e terapeuta e Wilhelm Reich che mette al centro della sua ricerca i processi corporei ed energetici, luoghi privilegiati per l’espressione dei conflitti emotivi.Inoltre, se analizziamo le pubblicazioni di Whitaker e Perls che più si caratterizzano in senso autobiografico, avvertiamo l’influenza che la filosofia e la psicologia ad orientamento fenomenologico ed esistenziale hanno avuto sulla loro visione della realtà. E’ tangibile l’influenza di autori quali Kierkegaard, Tillich, Buber, Binswanger, Camus.
La relazione con colleghi quali Lawrence Kubie, Virginia Satir e Sheldon Kopp contribuiscono ad un progressivo avvicinamento non solo da un punto di vista intellettuale ma anche personale. Non siamo in grado di affermare che Whitaker e Perls si conoscessero personalmente ma certamente sappiamo che Perls si riferisce a Whitaker a proposito della “bellissima scoperta della parte di paziente che c’è nel terapeuta” (Perls, 1969b, p. 97), così come Whitaker fa riferimento alla Gestalt quando afferma che la terapia simbolico-esperienziale è “una sorta di estrapolazione del vecchio modello della Gestalt che includeva movimento del corpo, sensazione corporea e consapevolezza più totale” (Whitaker, 1988 p. 64).
Se dalle note più propriamente biografiche ci spostiamo poi ad analizzare il pensiero di Perls e Whitaker, la risonanza tra questi due autori ci sembra francamente straordinaria, nonostante la diversità degli ambiti professionali: Perls, infatti, ha sempre svolto la sua professione in un contesto extra-istituzionale con individui che presentavano problemi nevrotici mentre Whitaker si è mosso prevalentemente in un ambito ospedaliero ed universitario lavorando soprattutto con psicotici ed in particolare, negli ultimi 30 anni della sua carriera, con le famiglie.
Come accennato precedentemente, sembra forte per entrambi l’adesione ad un modello psicoterapeutico orientato in senso umanistico-esistenziale: la sofferenza, il disagio, la sintomatologia del paziente rimandano più propriamente alla condizione umana. Il paziente fondamentalmente riporta in terapia la propria difficoltà di vivere. All’interno di questo modello di riferimento, entrambi sembrano sposare una visione dinamica e dialettica della condizione umana. L’uomo è visto, all’interno di un’ottica olistica, come un organismo in una continua tensione dialettica, sempre e costantemente oscillante tra molteplici bisogni e spinte biologiche, psicologiche e sociali. In particolare Perls, prendendo le mosse dal concetto di omeostasi inteso come una condizione in continuo mutamento, mai statica, afferma che “tutta la vita è caratterizzata da questo gioco costante di equilibrio e squilibrio all’interno dell’organismo” (Perls, 1973 p.17). Ogni nuovo bisogno scuote l’equilibrio preesistente per cui il processo omeostatico è sempre al lavoro. La malattia insorge quando il processo omeostatico fallisce e l’organismo rimane troppo a lungo in uno stato di squilibrio. Infatti la tendenza dell’organismo è quella di autoregolarsi disciplinando l’emergenza dei diversi bisogni attraverso un meccanismo di figura-sfondo. Il bisogno più importante diventa la figura in primo piano mentre gli altri bisogni recedono sullo sfondo.
All’interno di questo processo di regolazione, tuttavia, non c’è una reale inconciliabilità tra le diverse istanze sia se pensiamo all’organismo umano in termini fisiologici che in termini psicologici o sociali. Ad esempio se prendiamo in considerazione la polarità contatto-ritiro, possiamo notare come entrambe queste modalità siano fondamentali nel garantire la sopravvivenza biologica e psicologica dell’individuo. Tuttavia, né il contatto né il ritiro sono di per sé buoni o cattivi, sani o patologici in quanto la prevalenza di un bisogno sull’altro è determinata dal fatto che l’organismo umano si può sviluppare unicamente in relazione all’ambiente. Ciò significa che un bisogno tende a

prevalere in relazione alla situazione in atto.
L’organismo si relaziona ed interagisce con l’ambiente all’insegna della reciprocità e dell’opposizione dialettica: “l’intero campo organismo/ambiente è una unità differenziata dialetticamente. E’ differenziata biologicamente in organismo e ambiente, psicologicamente in sé e l’altro, moralmente in egoismo ed altruismo, scientificamente in soggetto ed oggetto, ecc” (op. cit. 1973 p. 32). In contrasto con i fautori di una concezione dualistica dell’uomo che vedono questi processi operare come forze contrapposte tese a frammentare l’individuo, Perls coglie la fondamentale globalità ed unitarietà dell’esistenza che si esprime attraverso una dinamica armonia di contrari. Per dirla con Eraclito: “ciò che contrasta concorre e da elementi che discordano si ha la più bella armonia” (framm. 24). Qualsiasi evento non può essere compreso se non all’interno di polarità in continua interazione. Si tratta, come sostiene Perls, di diventare ambidestri per poter vedere i poli di ogni evento: “è necessario che ci sia un ritmo tra luce ed oscurità … la destra non esiste senza la sinistra” (Perls, 1969a p. 25).
Anche per Whitaker l’aspetto centrale dell’esistenza è la sua natura dialettica e dinamica. Contrazione-espansione, contatto-ritiro, vita-morte. E’ questo il ritmo della natura stessa in tutte le sue espressioni. Per l’uomo tutto ciò è decisamente insopportabile. La consapevolezza della morte trasforma questa oscillazione, questo ritmo in un vero e proprio incubo rendendo assurda la nostra vita. Il dilemma dell’esistenza, secondo Whitaker, spinge l’uomo: “a cercare una soluzione alla vita come se si trattasse di un problema” (Whitaker, 1989 p. 70). In realtà, le diverse dialettiche: appartenenza-individuazione, amore-odio, maschile-femminile, individuo-società, ruolo-persona, emisfero destro-emisfero sinistro, etc., non ammettono scelta finale ma una “continua oscillazione che non è mai risolvibile ma solo continuamente amplificabile … il concetto di dialettica evidenzia la necessità di potenziare entrambe le qualità” (op. cit. 1989, p. 126). Così per ogni organismo biologico e psicologico, sia esso l’individuo, la famiglia, la società, lo stato di salute “è una condizione di perpetuo divenire, non si arriva mai veramente alla meta né si completa il viaggio” (op. cit. 1988, p. 150).
Si tratta, in altri termini, di immaginare l’uomo in uno stato di continuo movimento all’interno di territori discrepanti. I problemi nascono nel momento in cui cerchiamo di trovare delle “soluzioni” di fronte a queste diverse istanze. Preferiamo entrare in conflitto con il nostro stesso conflitto nel tentativo di identificarci con uno dei due poli con l’esclusione o la negazione dell’altro piuttosto che accettare l’idea che “questa lotta è una dialettica da vivere, non da risolvere; che è fondamentale per la nostra esistenza” (op. cit. 1988 p. 125). Del resto questa modalità fobica di approcciare ai problemi propri dell’esistenza viene alimentata e rinforzata dalla stessa psicoterapia quando, come accade molto spesso, sembra dimenticare che “l’unica terapia è la vita reale: il paziente deve imparare a vivere con la sua scissione, con il suo conflitto, con la sua ambivalenza, che nessuna terapia può eliminare poiché, se lo facesse, porterebbe via con sé la vera fonte della vita” (Rank, 1947 p. 206).
La nostra vita è realmente assurda, paradossale, folle. Siamo responsabili della nostra vita senza averne un reale controllo; nonostante la natura arbitraria, mutevole dell’esistenza dobbiamo prendere decisioni come se sapessimo cosa fare. Non possiamo evitare di muoverci costantemente verso la crescita, l’integrazione, la maturità per poi invecchiare e morire; desideriamo l’intimità dell’appartenenza per poi essere terrorizzati dalla paura di essere risucchiati, di perdere la nostra libertà; vogliamo essere autonomi, indipendenti, autosufficienti per poi sentirne tutta la solitudine, l’isolamento. Desideriamo vivere e quindi morire e viviamo nel terrore sia della vita che della

morte; avvertiamo la pazzia del mondo, i rischi dell’adattamento e della schiavitù sociale ma l’unica alternativa è la pazzia nel tentativo di vivere all’altezza della nostra immagine del mondo. Durante il giorno tentiamo di essere razionali, lucidi, illudendoci che le nostre idee e pensieri guidino il nostro comportamento, mentre di notte, quando dormiamo, siamo degli schizofrenici guidati dal nostro sé psicotico.
In particolare, sia Whitaker che Perls evidenziano una antinomia, a loro avviso, particolarmente problematica tra individuo e società.
Come individuo sperimento fantasie, desideri e sentimenti che costantemente entrano in conflitto con le aspettative, le richieste della società e al tempo stesso sento il desiderio di appartenere, di far parte, di essere integrato, accolto nel mondo, nel gruppo.
La società dal canto suo, pur essendo composta da individui, è un sistema che si comporta in modo diverso dalla semplice somma delle parti, presentando, quindi, un funzionamento non sempre compatibile con le esigenze del singolo.
Secondo Perls viviamo in una società folle che tende a produrre individui nevrotici, anche se la sofferenza psichica non è attribuibile tout-court alla società, in quanto individuo e ambiente fanno parte di uno stesso campo, sono entrambi elementi di un intero. Resta l’evidenza delle difficoltà del singolo individuo nel momento in cui i bisogni sociali ed individuali entrano in conflitto. Se un individuo asseconda la società “diventa malato in certi riguardi … ma se non la asseconda, diventa demente, perché la nostra è l’unica società che c’è. Ecco il dilemma” (Simmons, 1988 p. 204).
Anche per Whitaker la società appare folle nelle sue richieste. L’individuo è spesso schiacciato dai lacci soffocanti e dagli stereotipi imposti dalla cultura che accetta solo alcuni modi di essere. La patologia è per Whitaker un tentativo disperato dell’individuo per non essere del tutto annullato dalla società: “il suo sistema delirante e le sue allucinazioni sono la conseguenza diretta di questa battaglia contro la sua situazione esistenziale e contro lo stress che deve sopportare per non diventare una non-persona, una specie di automa sociale” (op. cit. 1989 p. 68).
L’alternativa che Whitaker e Perls propongono, alla follia o ad un’iperadattamento altrettanto folle e distruttivo, è rappresentata dal tentativo di integrare le diverse componenti ed antinomie.
Tuttavia, nella vita come nella terapia l’integrazione delle polarità, del cast dei personaggi che dimorano nell’animo umano non è un percorso esente da rischi, dolore o cadute. E’ anzi costellato da errori, contraddizioni, lacerazioni, disadattamento. Nondimeno è possibile avvertire nel pensiero di questi due autori un sentimento di ottimismo e di fiducia verso le potenzialità di crescita e di integrazione emotiva che caratterizzano il percorso maturativo dell’uomo.
La fiducia che Whitaker e Perls sembrano provare per il genere umano non appare, tuttavia, della stessa pasta di coloro che aderiscono ai miti dello sviluppo, del progresso, dell’autorealizzazione obbligatoria che spesso sembrano permeare la nostra cultura ed in particolare la cultura psicologica.
Secondo Perls, che è stato considerato, a torto, uno dei profeti della moderna cultura edonistica, imbevuta di narcisismo e spontaneismo, siamo entrati nell’epoca degli “accensori, di quelli che, come se si trattasse di premere un bottone, promettono guarigioni istantanee, consapevolezza sensoriale istantanea” (op. cit. 1969a p. 9). In un altro testo, a proposito del concetto di autorealizzazione, afferma che: “realizzazione di sé è un termine limitato. E’ stato glorificato e distorto … da molti psicologi umanisti” (op. cit. 1969b p. 18). L’individuo, come abbiamo detto, non è una monade, una cosa in sé ma esiste in relazione all’ambiente, al diverso da sé, all’altro. In effetti, come già sembra intuire Perls alla fine degli anni ’60, ai vecchi miti e condizionamenti

culturali che esigevano l’annullamento dell’individuo a vantaggio della società si sono sostituiti, oggi, nuovi miti che esaltano la dimensione individuale all’insegna di valori quali giovinezza, competitività, produttività, autosufficienza ed edonismo (cfr. Morelli, 1992).
Anche Whitaker ritiene che siamo immersi in una cultura narcisistica e disperata che premia “l’abilità delle persone a vivere come individui solitari capaci di autocorreggere lo stress” (op. cit. 1989 p. 97). Nasce così, dopo la generazione del noi la generazione del me o ancor meglio dell’anti- noi: “una specie di espressione metaforica del delirio psicoanalitico che una sufficiente consapevolezza di sé ed una adeguata possibilità di esprimere se stessi avrebbero consentito a tutti di raggiungere la maturità, la felicità e una vita piena” (op. cit. 1989 p.122) e che invece sembra aver prodotto, a causa dell’isolamento che ne è seguito “una violenta reazione che si esprime nella frenetica ricerca di salute, di esercizio fisico e di cure mediche” (op. cit. 1989 p. 123).
Anche la comunità psicologica, che sembra aver perso ogni funzione di critica sociale, non appare affatto estranea a questo processo. Se ci è consentita una nota personale, abbiamo l’impressione che in questo momento diversi orientamenti e scuole di psicoterapia sembrano distributori di gioia di vivere, pensiero positivo, orgasmi simultanei, ottimismo e creatività a buon mercato, con il risultato di creare nuovi disagi, nuovi sentimenti di inadeguatezza: “la fantasia della crescita, la fantasia della persona sempre in espansione, sempre in evoluzione … non tiene alcun conto dell’immutabilità. Questa fantasia che è alimentata da terapie di vario genere a lungo andare non ottiene altro che far sentire le persone sempre più dei falliti” (Hillman e Ventura, 1992 p. 20).

La terapia: diventare ciò che siamo

Alla luce di quanto detto, le riflessioni di Whitaker e Perls circa il significato e le funzioni della psicoterapia, sembrano volte a restituire all’agire terapeutico una dimensione più propriamente umanistica.
Per entrambi, la psicoterapia non ha la funzione di assecondare il mandato sociale che prescrive al terapeuta di riabilitare e riadattare i membri malati o devianti della società. Non si tratta di rendere funzionale il paziente, di aiutarlo a “farcela”, di renderlo in grado di tenere sotto controllo comportamenti, pensieri, bisogni, in altre parole, la sua psiche, la sua anima. Non è compito del terapeuta aiutare il paziente a perfezionare la sua nevrosi cercando di sostenere il gioco distruttivo dell’automiglioramento, del cambiamento intenzionale e programmato che molto spesso è alla base della richiesta di terapia attraverso interpretazioni, consigli, sostegno, accettazione incondizionata. La terapia non ha il compito di sostenere la fantasia, spesso reciproca, che il terapeuta possegga i valori “giusti”, sia onnipotente, saggio, “risolto”, in grado di fornire al paziente un modello con cui identificarsi o essere il genitore buono e comprensivo che il paziente non ha mai avuto, né tantomeno di fornire informazione, educazione, conoscenza con il risultato di rendere il paziente passivo, inetto, impotente, inadeguato o, quantomeno, di alimentare la fantasia che la conoscenza o l’apprendimento di nuove tecniche di comunicazione possano essere di qualche aiuto.
Ma allora a che cosa serve la terapia? Qual è il suo scopo? Se la terapia viene spogliata delle sue funzioni riabilitative e risocializzanti, di risposta alle richieste di aiuto, se non si tratta di dar sollievo ai sintomi o all’ansia del paziente, se il progresso, il miglioramento non sono indici di salute e di efficacia terapeutica, allora cosa rimane?
Secondo Perls e Whitaker questi interrogativi evidenziano un vizio di fondo, prendono spunto da presupposti per certi versi fuorvianti. Infatti, l’assunto di base su cui poggiano queste domande ruota intorno alla fantasia, spesso condivisa da entrambi i protagonisti del setting terapeutico, che

la terapia si definisca tale in quanto serve a qualcosa, provoca cambiamenti, ha uno scopo, un fine. Sulla base di questo assunto, il materiale che il paziente presenta in terapia – sintomi, comportamenti, sentimenti, fantasie, eccentricità – deve essere passato al setaccio, filtrato e depurato delle sue scorie per poter essere riciclato, trasformato in qualcosa di utile, migliore, diverso, nuovo. Nella nostra società dinamica, efficiente, attiva e in continua evoluzione non c’è spazio per l’esistente, per ciò che una persona è, per tutto quello che non può essere utilizzato, consumato, scambiato. Si va in terapia, quantomeno ad un primo livello, per guarire dai residui di umanità, per eliminare le nostre imperfezioni, i nostri limiti, per guarire dalla nostra impotenza, dalla nostra disperazione, dal fatto di avere una psiche, un’anima. Dovrei essere.., non sono abbastanza.., se fossi diverso…,etc.
Secondo Whitaker è proprio la costante tensione verso uno scopo, caratteristica della nostra cultura così orientata sull’agire, sul modificare, “la malattia più diffusa nella nostra società” (op. cit. 1989 p. 75). Il nostro continuo impegno a fare ed agire sembra un modo per impedirci di essere “se ci si dà abbastanza da fare non si è obbligati ad essere qualcuno. Si può cercare con sempre maggiore impegno, di diventare qualcosa di diverso da quello che si è: sempre migliori, sempre più potenti, sempre più simili a qualcun altro e sempre meno simili a ciò che in passato abbiamo scoperto di essere” (op. cit. 1989 p. 69).
Anche Perls sottolinea che l’orientamento verso uno scopo, ricercato al di fuori della relazione organismo-ambiente, ci porta inevitabilmente in una condizione di conflitto e scissione: “ogni individuo, ogni pianta, ogni animale ha solo uno scopo … realizzarsi per quel che è. Una rosa è una rosa, è una rosa. La rosa non ha nessuna intenzione di realizzarsi come canguro” (op. cit. 1969a p. 39). Secondo Perls questo è un punto fondamentale. La costante tensione verso la realizzazione della propria immagine, la ricerca di un cambiamento intenzionale di noi stessi o degli altri comportano “la frantumazione, i conflitti, la disperazione non avvertita della gente di carta” (op. cit. 1969b p. 21).
Da quanto detto si comincia forse ad intuire come l’approccio al disagio psichico di Whitaker e Perls cerchi di sottrarsi ad una impostazione culturale, ideologica e psicologica che interpreta ciò che siamo come la malattia da curare ed il cambiamento, quale che sia, come una condizione di salute. Secondo questi due autori la funzione della terapia, per usare un’espressione di Hillman, è quella di fare anima, di aiutare il terapeuta e il paziente a diventare quello che sono. E’ in tal senso una reciproca cura dell’anima, un tentativo di restituire umanità e dignità alla nostra esistenza.
Ma cosa significa concretamente “fare anima”, diventare ciò che sono? Fare anima, nel comune sentire di Whitaker e Perls, significa creare un luogo, uno spazio di espressione e di integrazione di ciò che è veramente importante per l’uomo, di tutte le esperienze che danno valore, significato, pathos alla nostra vita e grazie alle quali probabilmente viviamo: “la psicologia tratta dell’unica materia di interesse universale per gli esseri umani: noi stessi e gli altri” (Perls, 1973 p. 1).
Secondo Whitaker, tutti gli esseri umani hanno “una ricca e spumeggiante vita interiore di impulsi. Tutti abbiamo pensieri omicidi, tutti lottiamo con impulsi suicidi, tutti abbiamo fantasie incestuose, tutti siamo terrorizzati dal concetto di morte. Non riuscire ad affrontare questi semplici fatti della vita significa tagliar fuori buona parte della nostra umanità” (op. cit. 1988 p. 63).
I temi universali: sessualità, intimità, aggressività, malattia, dolore, pazzia, morte, rappresentano la struttura, la base su cui poggia la nostra vita ma, forse proprio per la loro importanza, sono relegati sullo sfondo, resi patologici dalla fantasia distruttiva che la vita debba essere indolore, facile, piacevole, priva di conflitti come ci propongono le vecchie e nuove mitologie culturali e familiari.

Come abbiamo detto, a proposito della tensione a cui l’uomo è sottoposto nel confrontarsi con le diverse dialettiche che lo accompagnano e lo scuotono, novello Sisifo, nel corso di tutta la sua esistenza, la mancanza di uno spazio per l’espressione e l’integrazione delle diverse polarità dell’esistenza ci getta in una condizione di scissione e di frammentazione. E’ possibile comprendere, a questo punto, l’importanza, nell’agire terapeutico di Whitaker e Perls, dei concetti di espressione ed integrazione.
Cerchiamo ora di analizzare questi principi terapeutici in modo più approfondito. Naturalmente, non intendiamo in questa sede riassumere il complesso ed articolato insieme di strumenti e tecniche su cui si basano i modelli di Whitaker e Perls, quanto cercare di cogliere i principi terapeutici più significativi che sottendono l’agire terapeutico di questi due autori.

I principi terapeutici della terapia della Gestalt

La terapia della Gestalt si caratterizza come un approccio esperienziale piuttosto che verbale o interpretativo. Il materiale, i sintomi, i vissuti, in una parola i problemi che il paziente presenta in terapia, anche se possono essere determinati da eventi, traumi, esperienze che appartengono al passato e alle vicissitudini storiche del paziente, sono rilevanti solo nella misura in cui interferiscono con la realtà attuale, limitano le esperienze e le relazioni del paziente stesso. E’ necessario quindi, secondo Perls, che la terapia sia orientata, in senso esperienziale, esclusivamente sul presente, sul qui ed ora. L’attenzione va diretta all’attualità intesa nella sua dimensione temporale, spaziale e sostanziale. In altri termini si chiede al paziente, ma anche al terapeuta, di essere in questo posto, in questo momento e di rivolgere l’attenzione a quanto succede: “chiediamo al paziente di diventare consapevole dei suoi gesti, della sua respirazione, delle sue emozioni, della sua voce, delle sue espressioni facciali, nonché dei suoi pensieri pressanti” (op. cit. 1973 p. 65).
L’orientamento sul presente, sull’esperienza, su quanto il paziente sperimenta di se stesso da un punto di vista corporeo, emotivo, immaginativo, da una parte tende a limitare e minimizzare l’influenza di razionalizzazioni, credenze, rappresentazioni di ruoli stereotipati e dall’altra permette l’espressione attiva di qualsiasi materiale presentato, sia esso un sintomo, un sogno, un ricordo.
Quanto emerge non va interpretato, modificato, né vanno cercate le cause sottostanti: semplicemente viene data voce, valore, diritto di esistenza ad ogni aspetto esistenziale che il paziente porta in terapia. Se il paziente presenta un sintomo il terapeuta può chiedergli di provare ad identificarsi con il sintomo, dargli voce, intensificarlo, permettergli di esprimere il suo messaggio per il paziente stesso. In questo modo è anche possibile attivare in modo psicodrammatico le diverse sottopersonalità, le diverse polarità. Il paziente, ad esempio, identificandosi e dando voce alle diverse parti di un sogno, potrà, dopo una fase di espressione e spesso di scontro, conflitto, contrapposizione tra i diversi personaggi, ruoli e figure che sono rappresentate nel sogno, recuperare, reintegrare le diverse parti di sé precedentemente scisse o alienate.
L’integrazione, tuttavia, non è né facile né indolore. Il paziente, infatti, si scinde, aliena aspetti della sua personalità proprio per evitare la sofferenza, la responsabilità, il prezzo di essere come è.
Assume ruoli fittizi: il bravo ragazzo, la moglie perfetta, etc., per essere amato, per non incorrere nella disapprovazione, per evitare le aspettative catastrofiche che immagina si verificherebbero a causa del suo comportamento non adattato. Il risultato di questa fuga da se stesso è la nevrosi, la psicosi, ma anche la rigidità emotiva, l’adattamento passivo e conformista alla società. Fuggendo da

se stesso, rendendosi inconsapevole, cercando il sostegno ambientale, manipolando se stesso e gli altri, evitando la responsabilità dei propri atti, cerca di evitare il dolore del vivere: “nutriamo tutta una serie di aspettative catastrofiche […] con le quali ci impediamo di vivere, di essere […] queste fantasie ci impediscono di assumerci quei ragionevoli rischi che sono parte integrante della crescita e della vita” (op. cit. 1969a p. 47). Diventa comprensibile, quindi, secondo Perls, la difficoltà di riconoscere, contattare ed integrare i nostri sentimenti, le nostre diverse anime, in quanto l’assunzione della responsabilità della propria vita non rappresenta un’altra e migliore soluzione rispetto alle difficoltà dell’esistenza né garantisce necessariamente felicità, soddisfazioni, migliori relazioni con gli altri. In tal senso la terapia della Gestalt, secondo Perls, non si interessa minimamente di fornire conforto, consolazioni, sicurezze, risposte esistenziali né tantomeno di aiutare il paziente ad essere più efficiente o a fare la “cosa giusta”, quanto di favorire una maggiore adesione e adattamento del paziente a se stesso, con i suoi limiti e possibilità, promuovendone la capacità di autosostenersi e di essere reale. E’ questo un punto molto importante in quanto l’orientamento verso una maggiore adesione a se stessi non viene inteso da Perls come una sorta di negazione della relazione con l’ambiente o con l’altro quanto piuttosto un fondamentale prerequisito per poter contattare il mondo esterno sulla base di bisogni e modalità sentiti e riconosciuti come propri. Secondo Perls questo processo è possibile nel momento in cui il paziente è disposto a ricollocarsi al centro della propria esistenza, recuperando il potere su se stesso e sui propri comportamenti ivi compresi gli aspetti disarmonici e contraddittori: “se ti assumi la responsabilità di quello che stai facendo, del modo in cui produci i tuoi sintomi, del modo in cui produci la tua malattia, del modo in cui produci la tua esistenza – al momento stesso in cui entri in contatto con te stesso – allora ha inizio la crescita, ha inizio l’integrazione” (op. cit. 1969a p. 186).
Assumersi la responsabilità della propria vita significa dare a se stessi la possibilità di perdonarsi per la propria imperfezione e, perché no, di gioire, sorridere dei propri difetti ed errori: “amo tutti gli incontri imperfetti di bersaglio e freccia che mancano il centro a sinistra e a destra, sopra e sotto. Amo tutti i tentativi che falliscono in mille modi diversi … amico non aver paura dei tuoi errori. Gli errori non sono peccati. Gli errori sono modi di fare qualcosa di diverso, forse nuovo in senso creativo. Amico non pentirti dei tuoi errori. Siine fiero. Hai avuto il coraggio di dare qualcosa di te stesso” (op. cit. 1969b p. 103)
Nel concludere la nostra disamina dei principi terapeutici sui quali si fonda la terapia della Gestalt non possiamo omettere un aspetto, a nostro avviso, estremamente importante.
Al fine di promuovere la capacità del paziente di far fronte allo stress a cui è sottoposto costantemente nel corso della sua esistenza, la terapia della Gestalt tende ad intensificare piuttosto che ridurre l’ansia, lo stress, le frustrazioni. Si tratta, in altri termini, di favorire il contatto del paziente con tutte quelle esperienze, interne ed esterne, sgradevoli, ansiogene e dolorose che tende ad evitare e sfuggire. Si tratta di portare il paziente dentro la ferita, dove fa più male, piuttosto che consolarlo sostenendo la fantasia che ci possa essere qualcuno al mondo in grado di aiutarlo, prendersi cura di lui, lenire la sua ferita: “quello che noi vogliamo fornire è un luogo in cui il paziente possa desiderare sempre più di sperimentare cose sgradevoli, come l’ansia. Quando la evita lo riportiamo indietro restando con lui” (Perls e Baumgardner, 1975 p. 47).
E’ questo l’aspetto più delicato della terapia. Il paziente, allo stesso modo del neonato che alla nascita non sa respirare da solo, deve attivare le proprie risorse se vuole imparare a respirare, se vuole vivere. In tal senso la frustrazione, la non-rassicurazione da parte del terapeuta intendono favorire una risposta personale da parte del paziente: “senza frustrazione non c’è alcun bisogno,

nessuna ragione di mobilitare le proprie risorse, di scoprire che potresti essere capace di fare qualcosa da solo” (op. cit. 1969a p. 40).

I principi terapeutici della terapia simbolico-esperienziale

L’approccio simbolico-esperienziale di Whitaker rappresenta l’evoluzione della originaria psicoterapia esperienziale non razionale, un modello messo a punto da Whitaker in collaborazione con Malone intorno alla metà degli anni ’50 quando ancora lavorava con pazienti individuali. In effetti la maggior parte dei successivi principi terapeutici sono già presenti in questo primo modello.
La terapia simbolico-esperienziale è un approccio a carattere esperienziale volto all’espressione e all’integrazione, nel corso del processo terapeutico, dei sentimenti e delle esperienze che il paziente presenta, sia esso un individuo, una coppia, una famiglia.
Anche Whitaker, come Perls, attribuisce valore all’espressione di sentimenti, fantasie, pensieri, impliciti o espliciti, presenti nel mondo soggettivo del paziente e del terapeuta. La terapia è per Whitaker uno spazio di espressione del mondo pulsionale ed immaginativo. Un luogo dove sia possibile mettere in scena quelle correnti emotive che sono alla base dei rapporti umani, guidano il nostro comportamento e sono temute per la loro intensità: “affrontando gli impulsi, possiamo cominciare ad integrarli anziché preservarli intatti con l’isolamento. I tentativi di negare ed isolare gli impulsi servono ad intensificarli, spesso fino al punto da rendere la loro espressione esplosiva e incontrollata” (op. cit. 1988 p.65).
Nel definire il processo terapeutico Whitaker mette l’enfasi sul qui ed ora e sul presente. Nella terapia simbolico-esperienziale l’interpretazione, l’insight, i metodi analitici di esplorazione del passato sono visti come modalità collusive per evitare l’ansia, ridurre la temperatura emotiva dell’incontro, proteggersi dalla possibilità che avvenga qualcosa di significativo, ostacolare il processo terapeutico e quindi la crescita e l’integrazione emotiva nel presente sia del paziente che del terapeuta: “il presente è la parte più delicata del tempo, quella che di solito viene evitata … condividere lo stesso ricordo è una recita, non un’esperienza. Condividere ricordi non è un modo di partecipare se stessi ma solo un sistema per evitare di essere ciò che siamo, parlando di ciò che eravamo, di quando eravamo, e di cose che sappiamo già” (op. cit. 1989 p. 206). Quando una terapia si focalizza esclusivamente sul processo verbale, sul parlare intorno a qualcosa, si trasforma ciò che è vivo in una cosa morta, non si favorisce alcun tipo di intimità né tantomeno una relazione autentica e reale: “fare qualcosa insieme agli altri – che si tratti di esercizi intellettuali, di giochi psicologici o balletti verbali – mantiene i nostri ruoli ad un livello piuttosto superficiale” (op. cit.
1989 p. 84).
Secondo Whitaker l’obiettivo della terapia simbolico-esperienziale è quello di cercare di liberarsi del passato e del futuro “buoni o cattivi che siano per cominciare semplicemente ad essere. Questo significa imparare a sviluppare la propria capacità di vivere, di essere una persona, di essere quel che si è in qualunque luogo e in qualunque momento” (op. cit. 1989 p. 72). Tuttavia, diventare una persona, essere quel che si è, anche per Whitaker non è un processo piacevole, facile. E’ un pò come gettare dell’alcool su una ferita aperta. E’ molto doloroso. Nel corso della terapia il paziente, man mano che inizia a “sentirsi”, ad entrare in contatto con la propria esistenza, con i propri sentimenti e desideri autentici, incontra inevitabilmente la sofferenza per la sua reale solitudine, per la sua reale impotenza, per la disperazione, altrettanto reale e sentita, di essere diventato una non- persona, per aver sacrificato, buttato via e mortificato la propria vita, le proprie aspirazioni nella

delirante fantasia di poter salvare il mondo, la mamma, la famiglia, se stesso. Tuttavia, l’esperienza di toccare le proprie ferite e cicatrici, rappresenta un importante momento di crescita. Infatti, è proprio il nostro tentativo di evitare il concreto dolore del vivere e gli inevitabili conflitti che ci getta in una profonda disperazione. Whitaker ritiene profondamente distruttiva la fantasia che si possa vivere senza sofferenza, crescere senza sentire la dolorosa perdita dell’illusione che Babbo Natale esista veramente: “penso che la vita senza sofferenza sia come una tossicodipendenza e che la fantasia di felicità perpetua sia come il delirio di fusione” (Whitaker, 1984 p. 22).
In tal senso la terapia simbolico-esperienziale si fonda su principi estremamente semplici: restituire al paziente la responsabilità della propria vita, la capacità di fornirsi del necessario autosostegno e, soprattutto, restituirgli “quel potere che gli appartiene e che in qualche modo ha gettato alle ortiche […] restituirgli il potere di sopravvivere e di vivere, di essere creativo a dispetto del suo dolore e della sua impotenza […] aiutarlo a sviluppare il suo io sono” (op. cit. 1989 p. 232). Il tentativo di muoversi in questa direzione richiede che il terapeuta cerchi di intensificare lo stress oltre il livello di tolleranza del paziente, ignori il progresso, il cambiamento di primo grado, si trattenga dall’aiutare e sostenere il paziente cercando di alleviarne le sofferenze e i sintomi: “voglio che imparino non solo a tollerare ma anche a godere dell’ansia e della sofferenza che rendono reale la vita. La scelta spesso si riduce o a diventare insensibili o a sperimentare sia il tormento sia la gioia. Voglio che siano in grado di prendere in considerazione l’esperienza di vivere” (op. cit. 1988 p. 158).
Whitaker, come Perls, utilizza in terapia bellissimi “trucchi”, tecniche, modi per inquinare, interferire con i copioni, con i potenti miti familiari ed individuali. Su questo aspetto, tuttavia, rimandiamo ad una lettura più specifica degli scritti di Whitaker. Quello che ci preme sottolineare in questa sede è piuttosto un punto a cui Whitaker dà molta importanza: la non assunzione da parte del terapeuta delle responsabilità che competono ai pazienti evitando, al tempo stesso, di fornire loro sostegno e aiuto.
Quando il terapeuta si sostituisce al paziente, cercando di aiutarlo nel muovere i suoi passi, in realtà “evita la formazione della perla” (op. cit. 1984 p. 48), indebolisce le sue risorse, le sue capacità, il suo potere e al contempo lo rende inetto, impotente e dipendente. Se, viceversa, sopporta l’ansia, il conflitto, la tensione dell’incontro reale, tollera l’aumento della temperatura emotiva, non si rifugia nel suo armamentario di tecniche e di teorie, riesce ad assumersi la propria responsabilità personale senza far dipendere la propria autostima dall’approvazione dal paziente, allora sarà forse possibile fornire un autentico sostegno ed aiuto ai pazienti nel loro tentativo di diventare persone reali: “in realtà l’intera faccenda di aiutarli è terrificante. E’ avvilente cercare di aiutarli, perché ciò sembra indicare che il proprio modo di vivere sia superiore al loro […] sto attento a qualsiasi tentativo da parte loro di delegare la responsabilità per la loro vita. E’ la loro partita non la mia. La mia responsabilità consiste nello spingerli ad accettare la propria responsabilità per il loro modo di vivere” (op. cit. 1988 p. 33).

Il terapeuta e la relazione terapeutica

Un capitolo a parte merita la figura del terapeuta, che assume, nell’interazione con il paziente, un grande rilievo ai fini del processo terapeutico. Sia per Whitaker che per Perls la relazione terapeutica, il rapporto interpersonale è al centro della dinamica terapeutica. La terapia, infatti, ruota intorno a persone e relazioni non ad interventi tecnici o ad astrazioni teoriche. Teoria e tecniche “prendono vita e forma soltanto quando sono filtrate attraverso la persona del terapeuta”

(Whitaker, op. cit. 1988 p. 30). Le conoscenze teoriche, l’apprendimento di tecniche rivestono, eventualmente, una certa importanza per il terapeuta dilettante che ha bisogno di una struttura protettiva, difensiva in grado di fornirgli la necessaria sicurezza per poter intraprendere il difficile viaggio nel proprio e nell’altrui mondo emotivo. Resta il fatto che la tecnica “è un trucco, un gioco di prestigio che dovrebbe essere impiegato soli in casi estremi” (Perls, op. cit. 1969a p. 9), mentre il sapere qualcosa intorno alla terapia (la teoria) può essere utile esclusivamente per poter interpretare un ruolo.
Nessuna teoria, tecnica o conoscenza è di qualche aiuto nel favorire la crescita personale e il tentativo da parte del terapeuta di diventare una persona. La crescita emotiva è possibile solo come risultato dell’esperienza: “niente che valga la pena di sapere può essere insegnato” (Whitaker, op. cit. 1988 p. 69).
Quando si parla di esperienza ci si riferisce soprattutto alla possibilità di fare esperienza di se stessi. Posso comprendere l’altro, i suoi tormenti, le sue pene solo se sento, scopro, vedo tutto ciò dentro di me. Di conseguenza per poter fare terapia è necessario sviluppare e mantenere un costante rapporto con il proprio mondo interiore. Se è vero che il principale, se non l’unico, strumento terapeutico a disposizione del terapeuta è se stesso e quindi i propri impulsi e desideri, fantasie ed intuizioni, valori ed orientamenti, è necessario un lungo e faticoso addestramento, una costante disciplina ed attenzione per poter passare dal fare terapia all’essere un terapeuta.
Perls, nei suoi scritti, non dedica molto spazio alla figura del terapeuta in quanto ciò che afferma rispetto ai problemi e ai conflitti del paziente è parimenti valido per il terapeuta. Nei suoi corsi, seminari, laboratori per professionisti della salute mentale l’attenzione era posta quasi esclusivamente sul fare esperienza diretta di se stessi e quindi dei propri comportamenti, sintomi, paure, fantasie. Si cercava, piuttosto che insegnare la terapia, di favorire la scoperta di quanta parte di paziente c’era in ogni terapeuta. Non era concepibile che si potesse fare terapia senza essere passati e passare continuamente per il proprio nucleo nevrotico. E’ questo, secondo Perls, un processo senza fine: il terapeuta si trova costantemente in terapia o, se si vuole, in auto terapia.
I principi terapeutici della terapia della Gestalt investono in prima persona il terapeuta. Essere qui ed ora, in contatto con i propri sentimenti, consapevoli e responsabili delle proprie scelte, dei propri comportamenti, in una parola della propria vita, sono principi privi di significato se non appartengono all’esperienza personale e direi esistenziale del terapeuta. Si fa terapia principalmente per riuscire ad aiutare, sopportare e consolare quella persona talvolta fragile, talvolta dispotica con cui dovrò passare il resto della mia vita. Volendo citare il titolo dell’autobiografia di Perls, si tratta letteralmente di andare “dentro e fuori il bidone della spazzatura”.
In fondo qualsiasi terapeuta che immagina o accetta di interpretare il ruolo del salvatore, di colui che aiuta, guarisce – “sto solo cercando di aiutarti” – sta ingannando il paziente o nel migliore dei casi ingannando se stesso.
Si fa terapia essenzialmente per se stessi: “credo di fare quello che faccio per me stesso […] ogni volta che si verifica qualcosa di reale sono commosso e […] mi dimentico del mio pubblico e della sua eventuale ammirazione e sono totalmente presente” (op. cit. 1969b p. 15).
Se il terapeuta si concede il permesso di riconoscere e di accedere ai propri sentimenti potrà comprendere la sofferenza e i sentimenti del paziente e soprattutto potrà mantenere un sufficiente equilibrio, nella relazione terapeutica, tra l’esperienza di coinvolgimento ed il rispetto dei propri confini. Nella misura in cui il terapeuta è reale ed autentico, accogliendo, ad esempio, il pianto

reale e rifiutando le lacrime strumentali, manipolatorie, può realmente essere utile al paziente restituendogli il diritto ed il permesso di essere altrettanto autentico, altrettanto reale.
Il terapeuta che si permette, ad esempio, di odiare il paziente, respingere i suoi tentativi manipolatori di trasformarlo nel suo salvatore, mostrare la propria impotenza, accettare la possibilità di essere sconfitto, si espone a molti rischi. Corre il rischio di essere rifiutato, odiato, abbandonato, aggredito, ma, come sostiene Perls, che in terapia non era certamente un santo né tantomeno un missionario, un terapeuta “deve rischiare la sua vita e la sua reputazione se vuole arrivare a qualcosa di reale. I compromessi e la disponibilità non funzionano” (op. cit. 1969b p. 98). Si può affermare, in conclusione, che l’umanità e l’integrità del terapeuta così come la sua disponibilità a correre dei rischi nel corso della relazione terapeutica sono valori e principi che si collocano al centro del pensiero e dell’azione terapeutica di Perls. Tuttavia il processo terapeutico non dipende unicamente dal contributo del terapeuta. Entrambi i partecipanti dell’incontro sono completamente responsabili delle proprie azioni. Il terapeuta non è affatto responsabile delle scelte e dei comportamenti del paziente: “assumersi responsabilità per un altro, interferire con la sua vita e sentirsi onnipotenti sono la stessa cosa” (op. cit. 1975 p. 31).
Il compito del terapeuta è quello di rimanere al centro della propria vita, accettando, per quello che gli è possibile, i propri limiti e le proprie capacità, rimanendo aperto a tutte le possibilità di fallimento e di successo.
Partecipare alla vita dell’altro non significa aiutarlo, cercare di renderlo migliore o diverso, quanto lasciarlo essere ed essere con lui: “sarò con te. Sarò con te con il mio interesse, la mia noia, la mia pazienza, la mia rabbia, la mia disponibilità. Sarò con te […] ma non ti posso aiutare. Sarò con te. Tu farai quello che riterrai necessario” (op. cit. 1975 p. 30).
Whitaker, diversamente da Perls, dedica molto spazio nei suoi scritti alla figura del terapeuta. Al riguardo, tuttavia, è tangibile la sensazione di essere in presenza di una forte convergenza, di un comune sentire nel trattare il ruolo del terapeuta nella sua interazione con il paziente.
Secondo Whitaker è importante che il terapeuta rimanga, nel corso della terapia, al centro della propria esistenza cercando di ottenere qualcosa dalla situazione “sono qui per me stesso e per quello che posso ottenere” (op. cit. 1988 p. 133). Tutto ciò, oltre ad avere una funzione preventiva rispetto ai rischi di esaurimento professionale, fornisce un aiuto indispensabile al processo di crescita personale del terapeuta e svuota di energia la fantasia collusiva, spesso condivisa da paziente e terapeuta, che l’altro sia la persona più importante nella propria vita: “evidentemente sono io la persona più importante della mia vita e nessuno può prendere questo posto, anche se posso creare questa illusione e finire per crederci io stesso” (op. cit. 1989 p. 190).
Whitaker ritiene che, così come il paziente, anche il terapeuta avverte una spinta verso la crescita nel tentativo di diventare una persona, di accettare ed apprezzare la propria vulnerabilità, pazzia, forza: in una parola i propri sentimenti.
Fare il terapeuta è un modo come un altro per cercare di curare se stesso. E’ il suo bisogno di aiuto che lo spinge in terapia: “se gli diventa impossibile chiedere aiuto per le sue immaturità residue allora perde la sua capacità di essere un terapeuta” (op. cit. 1984 p. 65). Il riconoscimento della propria inadeguatezza, della propria parte “paziente” è un prerequisito per poter portare in terapia se stesso e non “solo la propria uniforme di terapeuta” (op. cit. 1988 p. 36).
Ma cosa significa portare in terapia se stesso? Per Whitaker significa non preoccuparsi dell’esito quanto dell’esperienza in sé, permettersi di essere presente, personale, vivo piuttosto che recitare un ruolo, correre il rischio di esprimere la propria fantasia, pazzia, incongruenza. Portare se stessi

in terapia significa avere il coraggio di aspettare che “emerga qualcosa di spontaneo dalla creatività del terapeuta […] tollerare uno stato confusionale senza cercare una via di scampo” (op. cit. 1989 p. 207). Se il terapeuta si assume la responsabilità dei propri sentimenti e si concede il permesso di essere reale offre al paziente il permesso e il diritto di essere altrettanto reale e meno spaventato dalle proprie fantasie, dai propri sentimenti inaccettabili quali gelosia, invidia, rabbia, etc. Se il terapeuta si permette di essere ostile, annoiato, depresso, debole lascia intravedere al paziente la possibilità di accettarsi e quindi di essere come è.
Tuttavia, l’adesione a se stessi e l’ascolto, come terapeuta, del proprio mondo interiore spesso confuso, caotico e contraddittorio, suscita sentimenti di disagio ed ansia, che appaiono del tutto inevitabili. In altre parole, il terapeuta, secondo Whitaker, non può evitare l’esperienza della disperazione, sia che cerchi di proteggersi dalla relazione con il paziente attraverso l’assunzione di un ruolo, sia che accetti di correre il rischio che comporta una relazione più personale. Al riguardo Whitaker cita i tre tipi di disperazione cui fa riferimento Kierkegaard: 1) la disperazione di non essere una persona; 2) la disperazione di diventare una persona; 3) la disperazione di essere una persona.
Per il terapeuta, comunque, il pericolo maggiore è quello di scivolare sulla metacomunicazione “la malattia che affligge tutti gli psicoterapeuti: passiamo la nostra esistenza inseriti in un contesto nel quale parliamo del nostro parlare, molto spesso senza dire nulla” (op. cit. 1989 p. 71). L’antidoto alla metacomunicazione e al meta-vivere, secondo Whitaker, è quello di mantenere, anche nella terapia, la capacità di giocare, di essere intenzionalmente dipendenti ed infantili, di lasciar vivere le proprie parti eccentriche e dispettose: “c’è una sola cosa più triste dei bambini precocemente adulti (bambini che alla considerevole età di quattro anni parlano, si comportano, e affrontano la responsabilità di un adulto): sono gli adulti emotivamente infantili che si sforzano intellettualmente di giocare ad essere adulti” (op. cit. 1989 p. 74).
Un ulteriore rischio per il terapeuta, è quello di confondere la terapia con la propria vita. E’ necessario, secondo Whitaker, mantenere la propria centralità, per cui il terapeuta possa associarsi ma anche differenziarsi nei confronti del paziente, sia esso un individuo o una famiglia, ed esplicitare che la relazione terapeutica non va intesa come una sorta di adozione bilaterale, che il terapeuta non è un amico, un genitore, un fidanzato del paziente e che il suo coinvolgimento, per quanto intenso, non è mai tanto grande come quello che pone nella propria vita: “non sono disposto a portarmi a casa la famiglia se hanno bisogno di una casa in cui abitare […] offro di essere coinvolto ma mi riservo la possibilità di decidere che voglio uscirne. Non è un impegno a vita.
Infine c’è uno scambio di denaro il che rende chiaro il fatto che il nostro non è un rapporto di altruismo incondizionato” (op. cit. 1988 p. 40).

Conclusioni

Dopo aver portato a termine questo confronto, o meglio questo riscontro di significativi spazi di convergenza tra Whitaker e Perls, di una comune visione della sofferenza psichica e delle funzioni dell’agire terapeutico, vorremmo evidenziare due punti a nostro avviso importanti.
In primo luogo sia Whitaker che Perls sembrano indicarci una direzione che spesso, nel pensare e nel fare terapia, viene estremamente sottovalutata. Ci stiamo riferendo alla visione sintetica e globale dell’esperienza umana come emerge ripetutamente dagli scritti di questi due autori. Come afferma Whitaker gli “uomini non sono freddi, caldi, teneri, le donne non sono dominatrici, affettuose, intelligenti. Questi sono solo aggettivi, che ignorano la complessità dell’individuo e le

difficoltà di definirlo […] ogni qualvolta si tenta di etichettare qualcuno, la persona sparisce e si ha a che fare con le proprie fantasie” (op. cit. 1989 p. 207). Non è un caso che questi due autori non si curino del gergo psicopatologico parlando di fobici, ossessivi, depressi, rifuggendo dalla mania riduzionistica di classificare e definire, come tipicamente avviene all’interno della cultura medica e psicologica. Non cercano di trasformare le persone in sindromi … “come sta il tuo depresso?… E la tua personalità multipla?””.
La loro attenzione non è rivolta a scoprire le diverse determinanti intrapsichiche, relazionali, familiari sottostanti a questo o a quel sintomo quanto ad evidenziare, durante la terapia, i giochi, i copioni che i pazienti insistono ad interpretare e con i quali continuano ad identificarsi confondendo se stessi con il personaggio che hanno appreso a recitare.
In secondo luogo, a nostro parere, la terapia della Gestalt così come l’approccio simbolico- esperienziale non vogliono essere tanto dei sistemi psicologici o delle teorie della personalità, quanto uno stile personale di fare terapia. Con molta autoironia, Whitaker definisce il suo pensiero “il mio sistema delirante” (op. cit. 1989 p. 68). Anche Perls, pure essendosi più impegnato a promuovere il suo modello terapeutico, si pone fuori da una logica volta a cercare una legittimazione, sotto l’egida della scientificità, della propria prassi terapeutica, della propria e personale interpretazione della realtà. I loro modelli non si apparentano minimamente con la scienza. La terapia viene vista come una espressione artistica, un’applicazione della propria creatività e partecipazione al disagio psichico. La terapia è un’arte che l’apprendista assimila, come sa qualsiasi artigiano, lavorando accanto al maestro per poi trovare il coraggio di essere personale ed autonomo, come ci indica il messaggio contenuto nella massima buddista: “se incontri il Buddha per la strada uccidilo” (Kopp, 1973).
Il messaggio, a nostro avviso straordinario, contenuto nell’opera di Perls e Whitaker è l’invito ad essere personali, a non cercare di ripetere una tecnica come si ripete un’esperienza scientifica. I principi e gli strumenti terapeutici della Gestalt e dell’approccio simbolico-esperienziale possono essere di grande aiuto ed utilità per il giovane terapeuta, possono fornirgli una sorta di mappa per orientarsi all’interno della relazione terapeutica ma non sono degli imperativi categorici vincolanti né intendono limitare le risorse, le capacità e la creatività del terapeuta attraverso un insegnamento stereotipato, una sorta di Gestalt fissa applicata in modo ripetitivo. Il terapeuta che cerca di “preparare” uno specifico intervento, che cerca di pensare a quanto sta accadendo, inevitabilmente si allontana dalla relazione abbandonando il ruolo di terapeuta: “anche le precedenti esperienze spontanee possono diventare false quando vengono ripetute o imitate” (Whitaker, op. cit. 1989 p.
207).
Prima di concludere questa lettura dell’opera di Whitaker e Perls, vogliamo segnalare un rischio, a nostro avviso, da non sottovalutare.
Abbiamo l’impressione che Whitaker, recentemente scomparso, possa essere trasformato in una sorta di totem, di statuetta votiva, di effigie. Ci sembra che la psicoterapia, nei suoi diversi orientamenti, sia così preoccupata di ricevere una legittimazione scientifica, di poter appartenere a pieno diritto, nel modo “giusto”, alla società moderna e ai nuovi valori dominanti che un messaggio così diverso, così “altro” come quello di Whitaker, può trovare posto solo in una teca molto preziosa, a tal punto preziosa da non poter essere realmente toccata e contattata.
Perls ha corso e corre lo stesso rischio, ma in questo caso ci sembra che il problema sia un altro. La terapia della Gestalt, a pieno diritto una creatura di Perls, è stata “rivisitata”, ripulita delle sue asprezze e radicalità viste come deformazioni e contraddizioni che, secondo alcuni autori, hanno

impedito il completo sviluppo delle potenzialità gestaltiche (Wheleer, 1991). Ecco, dunque, il fiorire di approcci gestaltici alla ricerca di una legittimazione sia all’interno del mondo accademico che in quello commerciale. Queste scuole e associazioni si occupano infatti di “serissime” attività formative, promuovendo training e corsi di formazione con titoli molto suggestivi come: “sviluppo della autostima”, “vivere in coppia oggi”, “sensibilizzazione genitoriale”, “modifica dell’umore depressivo”, “come diventare assertivi”, attraverso moderni sistemi di insegnamento programmato (sic!).
Il cerchio si chiude. La frattura è ricomposta. Anche la terapia della Gestalt resa mansueta ed addomesticata è ammessa di diritto nel salotto buono dell’establishment perdendo così, ormai edulcorata, le sue qualità fondanti.

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Spiritualità e psicoterapia della Gestalt

figGroundVasaIntervista ad Antonio Ferrara *

a cura di Oliviero Rossi **

 

D: Nella tradizione della psicoterapia della Gestalt è abbastanza diffuso l’utilizzo di tecniche meditative. Oggi la spiritualità viene sempre più accolta nell’area della psicoterapia e ci sono filoni di ricerca e di pratica clinica che fanno riferimento a tradizioni spirituali. Cosa pensi dei fenomeni di integrazione tra psicoterapia e spiritualità e in particolare quanto credi ci sia di spirituale nella terapia della Gestalt?

R: Il tema è quanto mai complesso e già dicendo spiritualità bisogna intendersi a cosa ci si riferisce. In generale la psicologia, a partire da Freud, ha tenuto un atteggiamento laico se non oppositivo sugli aspetti spirituali della crescita umana. Si è pensato che ciò che è spirituale non è scientifico e quindi non può entrare a far parte delle scienze del comportamento. Ci sono principi di verificabilità e criteri relativi alla ripetibilità dell’applicazione del metodo e ciò che più conta sono necessari risultati misurabili. Per altri versi la spiritualità, intesa soprattutto come religione, venne considerata negativa ai fini della crescita psicologica, in quanto crea dipendenze e limitazioni nell’esperienza di affrancamento dalle autorità psichiche che dominano la personalità. Naturalmente non fu sempre così e ricordiamo quanto Jung invece dette spazio all’elemento spirituale, utilizzando lui stesso il termine ‘transpersonale’, con il quale oggi si definiscono gli approcci psicologici che allo spirituale fanno riferimento. Fu in particolare il movimento della psicologia Umanistica che negli anni ‘60 enfatizzò una dimensione psicologica che non si occupasse solo di sofferenza e conflittualità ma che guardasse anche al potenziale di crescita dell’essere umano. Nacque un grosso interesse per le filosofie orientali e in particolare per il buddhismo. Ci si appropriò di modi di vedere e di tecniche che provenivano da un contesto meditativo, creando spesso strane commistioni tra modelli terapeutici e insegnamenti spirituali, dai quali vennero mutuati strumenti tecnici e parziali concezioni sulla vita e l’esistenza. Erano estrapolati dal contenuto ben più complesso di antiche tradizioni, la cui prospettiva non è mirata soltanto al vivere con maggior pienezza l’esperienza nel qui e ora, come in maniera

semplicistica si potrebbe intendere, senza considerazione di sfondi e prospettive. L’obiettivo delle scuole buddhiste è piuttosto il raggiungimento di una dimensione di coscienza dove la sfida è l’affrancamento dalle passioni e dalla visione dualistica della realtà, causa principale di sofferenza e dolore. Si tende al raggiungimento di uno stato di perfezione, l’illuminazione, cioè uno stato nel quale siamo liberi dal ciclo della nascita e della morte. Viviamo imprigionati nel Samsara per effetto di cause karmiche che producono la ripetizione di cicli di esistenza dominati dall’attaccamento e dall’ignoranza della nostra vera condizione.

D: Quando parli di “vera condizione” suppongo che ti riferisci ad uno stato di coscienza nel quale si sperimenta una forma di esistenza diversa da quella alla quale siamo abituati nel nostro vivere quotidiano, che corrisponde a quella che in altri termini si chiamerebbe la realizzazione suprema.

R: Possiamo parlare di una mente condizionata, la piccola mente, come la chiamano i maestri Zen, che guida la nostra esperienza ordinaria, in contrapposizione allo stato della mente naturale, la mente pura, una dimensione senza limiti, condizione alla quale aspira il praticante. La mente pura è paragonabile allo specchio nel quale tutto si riflette, buono o cattivo, bello o brutto che sia. Continua imperturbato ad esistere e non cambia la sua natura. E’ lì immutabile, non è disturbato dalle caratteristiche degli oggetti che riflette. Così è lo stato della mente pura, non viene condizionata dal tipo di esperienze che vengono vissute. Per spirituale si può intendere questo atteggiamento, peculiare dei movimenti ai quali si è maggiormente ispirato il mondo della psicoterapia o anche la visione cristiana nella quale la meta è comunque uno stato di liberazione e di contemplazione del divino, con affrancamento dalla sofferenza per attingere ad una beatitudine suprema. Va detto per inciso che ci sono notevoli differenze tra la tradizione cristiana che ha come riferimento Dio e quindi un ente esterno al quale rivolgersi per la propria salvezza e la visione buddhista, che invece propone la ricerca dell’essere divino in noi, illuminati fin dall’origine. In questo caso l’impegno, piuttosto che la preghiera rivolta ad un ente esterno, è quello di riscoprire, attraverso pratiche meditative e comportamenti coerenti, centrati sul raggiungimento dello stato di natura vuota della mente, quanto in noi vive appannato a causa di ignoranza della condizione naturale. Se questo che ho definito è spirituale, nessuna delle psicoterapie ha tale natura, quindi neanche la Gestalt. Non hanno questa natura perché storicamente nascono con l’obiettivo di soddisfare bisogni relativi all’esistere e all’evolversi secondo le necessità dell’Ego. In pratica lo scopo della psicoterapia è di rendere più vivibile l’esistenza temporale eliminando sintomi dolorosi e blocchi

limitanti. Il progetto è contingente a questa esistenza e alle problematiche connesse a necessità e desideri, siano essi di tipo biologico, affettivo o evolutivo. Ovviamente con quello che dico non intendo escludere che la spiritualità possa occuparsi anche del benessere relativo alla vita qui e ora. Imparare a vivere con pienezza il quotidiano è parte e conseguenza della conoscenza della propria natura.

D: Tuttavia da quanto dici sembra difficile un contatto tra Gestalt e i significati più profondi che vengono dal mondo della spiritualità.

R: Pur stabilendo delle differenze non voglio affermare che la psicoterapia non possa proporsi un progetto di evoluzione più elevato e che in questo progetto non si possano integrare concezioni che provengono da tradizioni spirituali. Il terapeuta che ha esperienze personali in qualche forma di insegnamento, gioco forza trasmette la sua visione al paziente, anche quando lavora sul sintomo. Voglio portare un esempio. Nel buddhismo si parla molto di attaccamento e della necessità di liberarsi da modalità troppo “appassionate” di affrontare la vita, il che permette di superare lo stato di sofferenza determinato dalla ricerca di ciò che piace e dal rifiuto di quanto produce dolore. Ora, apprendere a rilassare la mente e ad assumere un atteggiamento di maggiore equidistanza tra le due polarità, quella del piacere e quella della sofferenza, distaccandosi un pochino dalle esperienze che viviamo nella vita quotidiana, aiuta a diminuire le tensioni. Ciò che sembra problematico e irrisolvibile diventa affrontabile, perché si relativizza il valore e l’importanza che la mente egoica attribuisce all’evento, piacevole o doloroso che sia. Questo atteggiamento, tra l’altro difficile da conseguire, viene da pratica e allenamento, ed è perfettamente integrabile in ogni tipo di psicoterapia, a qualsiasi scuola appartenga.

D: In alcune tradizioni viene proposta la ‘rinuncia’ come pratica per facilitare l’affrancamento dal bisogno.

R: A volte può essere utile, ma siamo dotati di corpo e quindi legati a bisogni che caratterizzano la nostra appartenenza alla specie umana. Utilizzare le funzioni dei sensi e le esperienze che la vita ci propone è una strada importante per accrescere la consapevolezza. D’altra parte pur vivendo pienamente il quotidiano si può riconoscere che le nostre necessità e i nostri limiti non sono assoluti, ma relativi ad una condizione temporanea e quindi legati alla legge dell’impermanenza, per la quale ogni fenomeno che ha un principio è destinato a finire. Imparando a guardare alle nostre esperienze con tale attitudine, si guadagna un maggior distacco dai propri bisogni e desideri, distacco che permette di allentare un po’ l’attaccamento a quel mondo delle passioni che è la causa principale di ogni sofferenza. Quindi l’obiettivo diventa il vivere le esperienze e apprendere a controllarle. Siamo noi a decidere se e quanto coinvolgerci e ad evitare che le passioni ci posseggano e condizionino. Paradossalmente è proprio un atteggiamento di maggior distacco che favorisce pienezza e soddisfazione. Se accetto la possibilità di potermi separare in ogni momento dalle cose, posso godere delle esperienze senza quel fondo di paura che viene dalla eventualità di perdere ciò che ho, sia che si tratti del buon cibo, della mamma, o dell’innamorata. Quindi è ovvio che l’esperienza spirituale agisce sulla sofferenza e cura. Il paradosso è che il cambiamento arriva quando si perde l’intenzione ‘appassionata’ di guarire, di essere felice e si da’ spazio anche al dolore, come esperienza inalienabile della vita. In questa ottica si può concepire quello che F. Perls chiamava il paradosso dell’accettazione che è, a mio parere, un punto chiave della terapia della Gestalt. Allora si può dire, come fa C. Naranjo, che terapia e ricerca spirituale sono sulla stessa via, su un continuo, un unico impegno che mira a liberare l’uomo dai grovigli dell’Ego. Le metodologie e le tecniche della moderna psicoterapia sono molto efficaci per acquistare consapevolezza del proprio stato, per recuperare emozioni perdute, dipanare conflitti e scoprire le ragioni dei comportamenti condizionati e tutto ciò è funzionale a maggiori aperture e a facilitare il contatto con differenti stati di coscienza.

D: Se il terapeuta da clinico si trasforma anche in maestro spirituale, capace di trattare con la patologia e di guidare verso un processo di crescita che ha mete più ambiziose, credo che il connubio diventi davvero complicato.

R: Ritengo che si aprano nuove vie ancora da esplorare, attraverso le quali favorire possibilità integrative così ricche. D’altra parte non penso che il terapeuta debba fare tutto da solo. Già da tempo sono convinto che è molto utile la collaborazione. Oggi le forme di terapia sono tante e molte sono valide. Ognuna guarda ad alcuni aspetti del malessere e della crescita. Ancora non esiste il sistema capace da solo di trattare ogni tipo di problematica e ad ogni livello di gravità. Ci sono terapie più specializzate nel corporeo e altre più sull’emotivo o sul cognitivo, alcune che lavorano sul processo, altre sul contenuto. Ognuna di loro ha un valore e apre orizzonti diversi alla conoscenza di sé. Sono prospettive differenti dalle quali si guarda all’esperienza umana ed è utile che sia così, perché i modi individuali di essere sono molteplici e nella stessa persona convivono innumerevoli stati. Non sono d’accordo con quanti oggi si arroccano nella loro scuola, cercano le matrici pure dell’approccio e credono in questo modo di salvare il modello da inquinamenti esterni. Non c’è nessun modello da salvare, per natura le cose finiscono e si trasformano e i modelli teorici cambiano nel tempo perché cambiano le situazioni, gli uomini. E poi c’è il confronto che è fondamentale. E’ dal confronto che nasce il nuovo, forse meno puro rispetto ai modelli originari, ma sicuramente più vivo e creativo. Personalmente partecipo da anni ad esperienze di lavoro con grandi gruppi, nei programmi SAT, dove è prassi che ci siano esperti di varie scuole e tendenze. Ciascuno lavora con il proprio orientamento. Questo per me significa che anche nel campo della spiritualità ci sono persone capaci di introdurre a certi tipi di conoscenze. Sono maestri riconosciuti e a loro bisogna rivolgersi. Quindi il terapeuta può, curando sintomi e problemi quotidiani indirizzare anche verso la dimensione spirituale, quando si rende conto che la condizione del paziente lo consente. Il malessere può essere affrontato a livelli esistenziali più profondi e si può andare oltre l’obiettivo della guarigione contingente. In realtà le vie sono parallele. Il meditante che evita il contatto con le cose quotidiane e pensa direttamente ad illuminarsi non va molto lontano, non fa i conti con il suo mondo passionale che pure esiste, soltanto non lo guarda. Analogamente chi cerca sempre ulteriori bisogni da soddisfare entra in una trappola senza fine e diventa utile dare un diverso significato alla propria esistenza.

D: Dopo questa premessa mi piacerebbe focalizzare l’attenzione sui rapporti tra spiritualità e Gestalt che è stato argomento della tavola rotonda alla quale tu hai partecipato, durante il Congresso Internazionale della terapia della Gestalt che si è tenuto lo scorso ottobre a Palermo.

R: La psicoterapia della Gestalt tradizionalmente ha dato molta enfasi allo sviluppo personale del terapeuta e anche se molti gestaltisti oggi rifiutano i discorsi sulla spiritualità, altri praticano la meditazione quotidianamente e anche la insegnano ai loro pazienti e allievi. Sicuramente ci sono fattori relativi alla tradizione e quindi al periodo storico e ambientale in cui la Gestalt si sviluppò, ma accanto a questi fattori anche un bisogno di andare oltre. Un bisogno che emerge quando dopo anni di esperienza con se stessi e con i pazienti si scoprono, a volte con sgomento, i limiti del processo terapeutico e spesso l’impossibilità di raggiungere solo con questo strumento obiettivi stabili. C’è sempre una nuova valida ragione per star male. Si cerca allora una pacificazione interiore che affranchi da conflitti e frustrazioni. Molti hanno imparato a soddisfare bisogni, da quelli più elementari a quelli più complessi, hanno trovato un compagno, hanno costruito una famiglia, si sono creati una professione, alcuni si sono legati a questi bisogni scoperti o riscoperti, non vogliono più perderli e ne fanno oggetto di appassionato attaccamento. Altri ancora si sono messi alla ricerca di nuove mete, vogliono di più, i bisogni si moltiplicano, ne nascono altri mai concepiti prima, più soldi, più casa, più vacanze, più prestigio e al fondo l’unica, costante insoddisfazione. Allora emerge il desiderio di dare un senso alla propria vita. Si cerca Dio, un maestro, una via dalla quale ottenere altro, un altro indefinibile, a volte, e si spera che ci sia. Partendo dalla terapia il viaggio si allarga e i confini del crescere hanno orizzonti sempre più ampi. Io ho scelto di avvicinare le esperienze il più possibile e di sperimentare e far sperimentare anche durante il processo terapeutico, una visione allargata dello sviluppo umano. Invito pazienti e allievi a seminari e incontri anche tenuti da me stesso o da persone esperte di tradizioni spirituali, oppure li indirizzo a maestri riconosciuti, capaci di dare una adeguata trasmissione.

D: Mi sembra che in ogni caso rimanga una certa confusione, soprattutto dal punto di vista metodologico, nella combinazione dei due approcci, psicoterapeutico e transpersonale.

R: Credo che sia vero. Ci possono essere confusioni su diversi livelli e perciò insisto con l’affermare che siamo su un terreno complicato da gestire. Ritengo che la ricerca e lo studio della clinica non debba mai essere perso di vista. Spesso si alimentano illusioni. Quando lavoro con la Psicologia degli Enneatipi, la caratterologia fondata sull’Enneagramma, che pure appartiene ad una tradizione spirituale, metto molto impegno sulla individuazione diagnostica dei tipi psicologici, basata su anni di lavoro e di ricerca rivolta a trovare i punti che accomunano e quelli che differenziano una tipologia dall’altra. La metodologia è scientifica. Ovviamente mi comporto in modo analogo quando come Analista Transazionale studio la struttura del Copione dei miei pazienti e cerco conferme e verifiche. Ma ci sono altri fenomeni che non rispondono ai modelli scientifici conosciuti e non per questo hanno meno valore. D’altro lato le esperienze meditative si diffondono sempre più e non possiamo far finta di ignorarle. Per me ha poco senso discutere se appartengano o no alla tradizione gestaltica e se siano integrabili nel suo modello teorico. Il dato è che la psicoterapia sempre più si avvicina alle vie spirituali e che molte persone in Gestalt come in altri approcci, le sperimentano e le insegnano. E poi è vero, e questo mi ha sempre colpito della Gestalt, che diversi aspetti della sua filosofia e metodologia hanno punti di somiglianza con tradizioni spirituali e su questo argomento voglio un po’ soffermarmi. Preciso subito che non voglio assolutamente proporre che la Gestalt sia una terapia di tipo transpersonale o spirituale. Anzi per molti versi è proprio lontana da una concezione spirituale della vita. Però ho sempre riscontrato una certa assonanza tra alcune intuizioni di Perls e i grandi insegnamenti. Da quanto raccontano di lui le persone che lo contattarono negli ultimi anni della sua vita, fu uomo non solo geniale ma anche profondo conoscitore dell’animo umano, con una forma di saggezza, a volte non facile da condividere, che tuttavia rendeva l’incontro con lui estremamente significativo. Quali siano stati i suoi maestri ispiratori e quanto fu suo, è difficile dire. In verità alcuni riferimenti li fa chiaramente anche nei suoi libri. Credo che dovette ricevere una grossa influenza dalla cultura orientale negli anni di permanenza in California. L’esperienza di Esalen dovette essere fondamentale. Esalen fu centro di incontro con maestri appartenenti a differenti culture e tradizioni e Perls, come lui stesso racconta, ebbe esperienze di meditazione. Pur apparentemente restio ad entrare in quella cultura e ponendosi addirittura al di sopra quando dichiarava di essere ‘ontologico’ e quindi di non aver bisogno di inserirsi in scuole o movimenti, né di aderire a nuove o vecchie ideologie, di fatto contrariamente a quanto faceva credere e abitualmente si pensa, meditava con regolarità. Le sue esperienze fatte in Israele con LSD, gli avevano aperto la mente e lo avevano introdotto in una sfera di comprensione del pensiero sospeso non comune nelle esperienze terapeutiche. C. Naranjo racconta che chi lo accompagnò in quel viaggio alla ricerca di sé, fu molto colpito dalla capacità di F. Perls di gestire da solo l’esperienza e anche se provava dolore, era il dolore della crescita. Non fu tuttavia soltanto negli ultimi anni che Perls dette un taglio più esistenziale alla terapia della Gestalt. In realtà questa impronta era già abbastanza evidente nelle elaborazioni teoriche che faceva in ‘Io, fame e aggressività’, e quindi all’inizio degli anni quaranta. Il suo linguaggio e i concetti espressi, mutuati da Friedlaender relativi alla indifferenza creativa e al ‘punto zero’, indicato come stato da cui origina ogni fenomeno e da cui derivano le contrapposizioni polari, mette in evidenza una attitudine a leggere la realtà su due dimensioni, quella potenziale e la sua manifestazione dualistica e relativizzata. Questa visione, completamente originale per la psicoterapia, ha molti punti in comune con la filosofia buddhista che, come già visto, propone il superamento del dualismo come via per il raggiungimento della saggezza, condizione nella quale il realizzato vive in uno stato di integrazione dei fenomeni dai quali non è separato, in un ‘punto zero’, una condizione di equilibrio che rimanda all’esperienza del vuoto, quello che più tardi lo stesso Perls definì ‘vuoto fertile’, ricco di esperienza quindi, da contrapporre al disperante vuoto nevrotico. Più avanti negli anni elaborò la tecnica del continuo di consapevolezza, che a mio parere rappresenta il culmine filosofico e teorico dell’approccio gestaltico, sufficiente in sé a produrre cambiamento. Il continuo di consapevolezza è il derivato del procedimento di focalizzazione che già dalla sua prima opera Perls proponeva come metodo e attitudine alternativa alla libera associazione, tanto da chiamare il modello teorico che andava elaborando, terapia della concentrazione. Anche nelle scuole di meditazione si attribuisce particolare rilevanza alla concentrazione, in questo caso come metodo per creare il vuoto mentale. Nel continuo di consapevolezza ci sono due ingredienti: la concentrazione e l’osservazione dell’esperienza della mente, esperienza che si presenta attraverso i pensieri, le sensazioni e le emozioni che attimo dopo attimo entrano nella consapevolezza dell’individuo. Tutto ciò richiama molto da vicino alcune forme della meditazione Vipassana dove la concentrazione che facilita lo stato senza pensieri e quindi la condizione di vuoto, si associa all’osservazione dei movimenti della mente. Lo scopo specifico delle tecniche Vipassana è di produrre lo stato meditativo mentre quello del continuo di consapevolezza gestaltico è di scoprire le interruzioni e i meccanismi di evitamento, ma soprattutto di acquisire consapevolezza del proprio modo di vivere l’esperienza nel qui ed ora. Nelle due visioni, quella terapeutica e quella spirituale, viene adottato uno strumento simile che induce a pensare alla possibilità di mettere su un continuo le due esperienze, quella terapeutica e quella spirituale, un’unica linea che unisce nevrosi e saggezza, l’Ego all’Essenza.

D: Ho sentito generalmente associare la Gestalt allo Zen, invece tu parli, a proposito del continuo di consapevolezza, della tradizione Vipassana.

R: La caratteristica fondamentale del continuo di consapevolezza consiste nel permettersi di focalizzare in maniera non predeterminata e non per catene associative, le esperienze che attimo dopo attimo si presentano alla coscienza. Nello Zen invece si dà molta attenzione alla pratica del vuoto mentale e si tende a questa esperienza mediante tecniche di concentrazione, ad esempio sul respiro o con altre forme che favoriscano l’assenza di pensiero. Nella meditazione Vipassana si dà attenzione anche ai movimenti della mente attraverso un’osservazione libera da valutazione o giudizio. Si osservano il pensiero, la sensazione, lo stato emozionale, e si permette poi che si dissolvano con mente priva di implicazioni e intenzioni e senza ovviamente entrare in spiegazioni o ricerca di significati: quello che si richiede è l’attenzione consapevole. A me sembra che ci sia una grossa affinità con le intenzioni del continuo gestaltico, pur essendo gli obiettivi apparentemente lontani.

D: Anche il paradosso gestaltico dell’accettazione sembra più vicino ad una cultura in cui ci si permette di fluire con l’esperienza piuttosto che forzare mediante atti di volontà.

R: Certo, lungi dall’essere un facile stratagemma finalizzato a distrarsi dal dolore e dalla sofferenza, che favorirebbe una visione superficiale e edonistica della vita, appare pienamente in linea con i concetti di non attaccamento e con l’attitudine a lasciar correre l’esperienza nel suo fluire inarrestabile: lo scorrere del fiume della tradizione taoista. Non si può spingere il fiume. Contro l’autotortura della ricerca accanita di cambiamento Perls propone di vivere le esperienze così come si presentano, propone l’accettazione, stare nel dolore così come nel piacere, il fiume scorre e le esperienze si dissolvono. L’opporsi crea maggiore sofferenza. Perls considera terapeutica questa attitudine di non evitamento. In ‘Io, fame e aggressività’, dice che è la mente umana a creare le categorie del bene e del male da cui discendono l’etica e la morale e potremmo aggiungere il mondo delle false virtù che implicano sforzi comportamentali che non rispondono a vissuti interni e quindi non producono effetti reali. Perls insegna, con il suo modo ‘ontologico’ di vivere, ad accettare profondamente il limite umano, a perdere le idealizzazioni e a rendersi conto della impermanenza dei fenomeni. Per questa grande attenzione al momento, all’attimo esistente, Perls veniva chiamato il profeta del ‘qui e ora’ e a lui si ispirarono in molti e tra loro il fondatore del Living Theatre, Julian Beck, ad esempio. Nello spettacolo teatrale Padise Now, l’‘hic et nunc’ veniva scandito da attori che si mescolavano al pubblico creando un contagio collettivo. Anche il concetto di ‘qui e ora’ può essere considerato su due livelli. Si può intendere come un vivere nel presente, in antitesi ad un restare legati al passato o proiettati nel futuro, perché questa attitudine elimina ansie anticipatorie e scorie fobiche, oppure come un ‘essere presente’, che nella concezione del tantrismo tibetano, significa entrare senza giudizio di valore e senza considerazioni su ciò che è bene e ciò che è male, direttamente e con piena presenza nell’esperienza che si vive. Accogliere i fenomeni della mente così come si presentano, standoci dentro finché non si dissolvano, fino ad integrarli, permette il processo di riconoscimento dello stato puro della mente.

D: Quindi anche in questo caso prassi terapeutica e pratica spirituale sono su un continuo, con diversa profondità di applicazione.

R: Sì, così mi sembra. Un altro aspetto che ricorda le tradizioni spirituali è l’attenzione particolare che la Gestalt dà alla consapevolezza. La consapevolezza diventa la guida per l’azione e il comportamento. Facilita una grande libertà da regole e introiezioni, meccanismi che Perls considerava, a differenza di Freud, come limitanti tout court. Praticandola si acquisisce capacità e responsabilità per le proprie azioni. D’altro lato questo principio, se mal digerito, può diventare un mito senza contenuti e facilitare confusioni sul suo significato. La consapevolezza della persona realizzata permette comprensioni che altri più confusi e con un minore livello di crescita possono non raggiungere. Una superficiale assimilazione delle sue idee innovative dette un iniziale successo alla Gestalt più come fenomeno culturale che come psicoterapia, in quanto rispondeva alle esigenze della nuova cultura anarchica e hippy di uscire dagli schemi e dalle limitazioni della società ordinaria. In ogni caso la consapevolezza diventò centrale nel processo terapeutico, coerente con la filosofia dell’autoappoggio. Se opero scelte consapevoli mi sostengo e mi oriento adeguatamente e non ho bisogno di appoggi e riferimenti esterni. Naturalmente ci sono tutti i rischi legati alle idealizzazioni, alla traduzione di propri bisogni personali in modelli di riferimento generalizzati, in cattive elaborazioni di istanze nuove, spesso mal capite o accolte per ribellione e quindi altra polarità non meno limitante rispetto ai ripudiati processi introiettivi. La consapevolezza, insieme alla responsabilità e l’attenzione al presente, divennero centrali nella Gestalt di C. Naranjo e sono aspetti fondamentali della crescita spirituale. Nelle antiche tradizioni accanto a questi principi, con maggiore saggezza, si danno indicazioni concrete su cosa è virtuoso e cosa è semplicemente passionale e quindi condizionato, mentre al contrario non c’è un’etica riconosciuta in Gestalt. Infatti a differenza di altri approcci terapeutici non ha organizzato un codice deontologico. L’implicita convinzione è che è meglio essere liberi da vincoli codificati, perché la natura consapevole conosce la direzione sana, ha una propria saggezza interna. Questo è vero, ma tante volte c’è anche l’illusione di consapevolezza. Spesso la saggezza naturale è così nascosta che è difficile contattarla.

D: Per lo sviluppo della psicoterapia della Gestalt, alcuni pensano che sarebbe stato più utile un maggiore inquadramento teorico e metodologico.

R: E’ ovvio che la storia della Gestalt non poteva essere diversa da quella che è stata. F. Perls fu un innovatore, e anche se alcuni suoi allievi hanno cercato di diminuirne il valore o addirittura di denigrarlo, la verità è che il suo nome entra nella storia della psicoterapia. Ha dato vita ad un movimento di rara potenza creativa ed è soprattutto per il suo impatto, per la sua grande forza e vitalità, per la speciale capacità di stimolare esperienze e vissuti, di risvegliare aree che le altre terapie non toccano, che la Gestalt è stata riconosciuta e apprezzata. Questo ha a che fare sicuramente con una visione allargata della coscienza, che è l’effetto di una ricerca costante di crescita e apprendimento personale, che Perls stimolò e i suoi migliori allievi portarono avanti. Lo sviluppo personale può curare. D’altro lato il movimento gestaltico è stato caratterizzato, come abbiamo visto, da una attitudine anarcoide cui ha fatto da contraltare, come polarità, un irrigidimento di quanti hanno voluto stabilire, per una sorta di autoproclamazione, cosa è la Gestalt e qual è la vera Gestalt. La mia idea è che non c’è la vera Gestalt e che sui tanti spunti e fermenti che il movimento ha creato ci sono altrettanti possibili filoni di sviluppo. Certo ci sono alcune matrici comuni. Alcune attitudini le sentiamo più affini e ci spingono a dire: “a questo signore mi sento più vicino che a un rogeriano perché si pone in maniera più direttiva, come me, oppure perché si occupa delle interruzioni del fluire della consapevolezza, perché propone più spesso di altri un contatto oculare, perché lavora con il ciclo di contatto e però non lo seguo più quando parla di ‘nuclei cognitivi’, che c’entra con la Gestalt”. Qui non sono più d’accordo. Il fatto che ogni terapia si sia specializzata in un’area, cognitiva, emozionale, del profondo, del processo o del fenomeno, non significa che tutte le altre non abbiano un loro valore e che per taluni aspetti non possano essere integrate in maniera coerente. Se chiedo al paziente ‘cosa provi’ e lui mi risponde ‘tristezza’, posso interrogarlo sul come la sente, come la vive o come faceva Perls posso invitarlo a descriverla o anche a identificarsi nella sua emozione, oppure cogliere un altro aspetto della organizzazione psicologica e chiedere : “quali pensieri sostengono la tua tristezza ? “. Sto lavorando ad un livello cognitivo e questo va bene anche per un approccio gestaltico, per il fatto che emozioni e pensieri sono entrambi presenti in un blocco o in una Gestalt fissa, così come nel fluire sano della coscienza.

D: Per quanto riguarda la consapevolezza?

R: La consapevolezza, può essere considerata la via principale per il cambiamento, principio fondante per la guarigione gestaltica e principio guida dell’insegnamento buddhista. L’enfasi sulla consapevolezza è conseguente ad una profonda fiducia nelle capacità di sviluppo e nelle responsabilità personali. Il gestaltista ha grande fede nella natura dell’uomo, in sé pienamente adeguata ad affrontare il processo di crescita, fino a teorizzare l’autoregolazione organismica, una forma di saggezza che se ascoltata, da sola e per sua natura, indica la via per la piena soddisfazione e la salute mentale. Vorrei trattare un ultimo punto. Ho sentito recentemente alcuni gestaltisti svalutare la concezione ‘io – tu’, che Perls mutuò da Buber. Non sono d’accordo, soprattutto per il significato che l’io – tu assume in termini sociali. Il terapeuta nella sua formazione e il paziente per il proprio cambiamento, non possono prescindere da questo valore: riconoscere l’altro che mi sta di fronte, al di là dei suoi limiti e delle sue patologie come essere con potenziale pari al mio, imbrigliato nelle trappole egoiche al pari di me. La comprensione dell’altro fino al contatto con la sua natura più profonda e lo stare insieme come io – tu, come essenza con essenza, costituiscono una via importante per alimentare la solidarietà umana. Oggi la psicoterapia si rivolge sempre più ai grandi gruppi, al sociale e non si può prescindere, in questa apertura, dall’incontro con l’altro. Tutte le scuole di terapia sono concordi nel ritenere che elemento fondante per una buona riuscita del trattamento è l’alleanza terapeutica. Molto di questo processo relazionale si elabora attraverso i fenomeni di transfert e controtransfert e molto, a mio parere, cresce e si alimenta nella relazione io – tu, attraverso la comprensione e la compassione.

Per concludere, nonostante la Gestalt appaia così vicina a metodi e modelli della tradizione spirituale, Perls non voleva una Gestalt transpersonale. Da quello che raccontano i suoi allievi diretti era molto radicato alle cose terrene e al mondo delle sensazioni. Ma il suo essere profondamente sé stesso gli dava una saggezza concreta che proveniva dal calarsi interamente nelle esperienze che viveva e nelle sue passioni, attitudine che se da un lato crea conflitti e sofferenza, d’altro lato porta ad una profonda conoscenza di sé. Ha lasciato una eredità implicita, non dichiarata, apparentemente da lui stesso osteggiata, una eredità che hanno raccolto gli allievi più diretti, primo tra tutti C. Naranjo, che ha aperto un filone importante di ricerca: l’interesse per il mondo delle tradizioni spirituali, verso il quale gestaltisti della seconda e terza generazione hanno sentito inclinazione e si sono diretti. L’apertura della Gestalt verso spazi più ampi della mente e della coscienza è stato per me il messaggio speciale rispetto ad altri modelli più organizzati e più facilmente comprensibili e praticabili. La terapia della Gestalt è molto difficile, perché ha una sua naturale propensione al completamento. Per l’uomo che cresce verrà il momento in cui apprendere a soddisfare i bisogni di sopravvivenza, d’amore, di evoluzione, di riconoscimento, non sarà più sufficiente, vorrà altri valori, valori spirituali. La Gestalt è già per sua natura su questa via.

*Antonio Ferrara: Psicologo, Psicoterapeuta. Presidente I.G.A.T (Istituto di Gestalt e Analisi Transazionale)

**Oliviero Rossi: Psicologo, Psicoterapeuta. 

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Il teatro del sogno come flusso della condotta

1252986280di Oliviero Rossi *

 

Tutte le diverse parti del sogno sono frammenti della nostra personalità. Dato che il nostro scopo è  quello di fare di ognuno di noi una persona sana, il che significa una persona integrata, quello che  dobbiamo fare è rimettere insieme i vari frammenti del sogno. Dobbiamo riappropriarci di queste  parti proiettate e frammentate della nostra personalità, e riappropriarci del potenziale nascosto che  compare nel sogno.

F. Perls

In questo articolo voglio accennare ad alcuni aspetti della tecnica di intervento sul sogno nel setting  psicoterapeutico.

Ogni approccio psicoterapeutico ha sviluppato delle modalità peculiari di intervento che rendono  operativi gli assunti teorici di partenza. Questo dato ovvio, ma a volte sottovalutato, porta a ridurre  la concezione teorica di partenza alle tecniche d’intervento sviluppate nel suo ambito, ostacolando  la possibilità di una corretta integrazione ed evoluzione delle tecnologie 1 d’intervento clinico in  ambiti concettuali differenti. Continua…

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La psicoterapia di coppia nell’infertilità: ovvero la creazione di uno spazio procreativo.

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di Paolo Gentili *

La comparsa dell’infertilità in una coppia, prima come sospetto e poi man mano come certezza, rappresenta, sempre più frequentemente, una delle possibili esperienze durante la sua storia coniugale. La coppia, che inizia un progetto coniugale per motivi consci ed inconsci (vedi l’articolo di Lalli), fonda la propria decisione su desideri ed aspettative nelle quali la scelta che all’interno di tale diade ci sia un terzo (il figlio) è spesso negata o quantomeno rimossa. Parallelamente, le relative capacità procreative sono supposte come adeguate ma la loro messa in atto viene rinviata, a livello conscio, ad altri momenti o ad altre condizioni vitali della coppia (come ad esempio al momento di una maggiore “stabilità” psicologica od economica o dopo aver vissuto abbastanza a lungo un tempo privilegiato di rapporto a due). Tralasciando in questa sede l’analisi dei motivi di queste scelte, nelle quali il “fantasma” del figlio o della possibilità e capacità di essere fertili sono presupposti ma nella realtà assenti o allontanati, nel presente articolo si prenderà in considerazione l’evento “infertilità” nel momento in cui diviene una esperienza reale della coppia provocando una crisi che nel tempo muta (Dunkel-Schetter e Lobel, 1991) ed attiva, sempre più frequentemente, una richiesta di aiuto sia a livello biologico che psicologico. Questa duplicità di ambiti di intervento rappresenta senza dubbio una realtà sempre più diffusa nella quale si trova chi, come “psico-esperto” è chiamato sia ad una diagnosi psicologica che ad un intervento psicoterapeutico. D’altra parte l’infertilità, come il concepimento, rappresenta senza dubbio il prodotto dell’interazione tra molteplici fattori bio-psicologici la cui individuazione aumenta ogni anno con il progressivo ampliamento delle conoscenze nell’ambito neuro endocrino e fisiopatologico, come pure dei meccanismi psicosomatici che intervengono nel permettere o meno il concepimento (Edelmann, Connolly, 1986).
Attualmente, sono infatti indubbie le influenze di natura psicologica sia su quelle che vengono definite “infertilità idiopatiche” che sulle cosiddette “infertilità funzionali”, sia, infine, su molti dei processi bio-psicologici che favoriscono, mantengono od interrompono uno stato di infertilità. Una conferma a quanto detto viene, tra l’altro, dal passaggio in molte coppie da una condizione di infertilità ad una di fertilità dopo l’adozione di un bambino. La gravidanza successiva all’adozione può essere attribuita ad una serie di cambiamenti psicologici (come ad esempio la riduzione di ansie o paure connesse ai cambiamenti dovuti alla presenza di un figlio) che influisce direttamente sul substrato neuro-ormonale dei due partner. Nel caso, poi, che si voglia negare tale ipotesi, l’influsso di cambiamenti psichici non sono tanto connessi all’adozione, giudicata una terapia prettamente “mitica” dell’infertilità (Arronet et al., 1974), quanto piuttosto alle nuove situazioni psicologiche dei partner sottoposti contemporaneamente ad intervento psicoterapeutico (Lamb e Leurgans,1979). Tuttavia, se è universalmente accettata l’influenza di fattori “psichici”, risulta tuttora difficile l’accordo sulla loro individuazione, ruolo patogenetico e definizione. Questo risulta ancora più complesso nel momento in cui lo studio dei dinamismi funzionali si allarga, non solo a quelli che potrebbero essere considerati patogenetici per l’infertilità ma anche a quelli che intervengono successivamente a modulare l’adattamento all’infertilità stessa e che spesso generano nella coppia dei comportamenti volti alla fertilità “a tutti i costi”, anche con scelte altamente stressanti quali quelle di sottoporsi a procedimenti di procreazione assistita o ad altre metodiche eticamente discutibili (Bigozzi, 1994).
Nel presente lavoro la riflessione, pur tenendo presente l’insieme dei fattori bio-psico-sociali in gioco nel concepimento e nell’infertilità, intende soffermarsi su alcuni aspetti, più prettamente psichici, propri della coppia infertile come unità diadica, che spesso motivano la richiesta di un trattamento di coppia. Utilizzando i principi dell’intervento psicodinamico ad orientamento psicoanalitico (Cremerius, 1991) nonché i contributi della psicoterapia di coppia simbolico-esperienziale (Withaker, 1988), il modello di lettura proposto e seguito, nell’intervento, tiene presente come nella coppia infertile sia necessario considerare una serie di aspetti intrapsichici e relazionali quali: il “desiderio” di concepimento del figlio, gli effetti di questo nell’ambito dell’organizzazione fantasmatica della coppia stessa (Eiguer, 1986), lo “spazio mentale e relazionale” (precedente, contemporaneo e successivo alla terapia) nel quale desideri, “oggetti mentali” e relative relazioni vengono ad interagire. Questa scelta di elementi intrapsichici e relazionali, può dar modo alla complessità dei fattori interagenti nella situazione di infertilità di manifestarsi e rende possibile la rappresentazione diagnostico-valutativa sia delle varie “configurazioni” coniugali, molteplici e mai definite, che appaiono durante il processo terapeutico di coppia sia degli aspetti psicodinamici dei singoli partner (specie in termini di difese o di modalità adattive individuali di fronte alla consapevolezza dell’ infertilità).
In particolare, l’assunto della infecondità come espressione di un particolare costrutto “relazionale” (qui inteso come insieme di relazioni intra ed extrapsichiche in uno spazio che definiamo come mentale e fisico) privilegia la relazione tra le caratteristiche istintuali dei due partner piuttosto che quelle fisiche. E’ quindi la “relazione infeconda” ad essere l'”oggetto” dell’intervento psicoterapeutico piuttosto che gli elementi che caratterizzano questa situazione quali i singoli coinvolgimenti, il loro apparato psicodinamico o le loro strategie di adattamento. L’infecondità, in tale ottica, viene considerata il “sintomo” di una particolare configurazione di coppia che mantiene tale significato psicologico anche nei casi in cui è chiaramente attribuibile a cause fisiche. In tal modo l’infertilità diviene una esperienza che può essere accolta o meno all’interno dello spazio mentale e fisico della coppia cosicché le relazioni oggettuali, come pure i comportamenti reciproci, assumono caratteristiche peculiari il cui significato, intrapsichico e relazionale, è strettamente connesso alla esistenza di uno “spazio” in cui la “coppia infertile” è l’oggetto di desideri e paure, di amore e odio da parte dei due partner.
In tal senso, il disturbo che riguarda gli aspetti pulsionali più coinvolti dalla fecondità della coppia, come la mancata “generatività” (Erikson,1982) o come l’ambivalenza del desiderio di gravidanza (Sandler,1968), sono il prodotto e la fonte di disturbi delle relazioni oggettuali, da quelle con il proprio corpo a quelle con le figure genitoriali, coniugali e filiali presenti nei singoli partner ed anche principi organizzatori della coppia (Eiguer, 1986). Così le diverse vicende dello sviluppo delle relazioni oggettuali interiorizzate (Kernberg, 1978) e dei principi organizzatori della coppia (Eiguer, 1986) modulano la struttura pulsionale dell’uomo e della donna, giustificano le manifestazioni psichiche che appaiono sia nella cliniche che nella ricerca sulle coppie infertili, come pure, possono essere invocate come concause dell’infertilità, sia a livello dei meccanismi della spermatogenesi e dell’ovulazione che dei disturbi psicosessuali (Paulley e Pelser, 1989).

La terapia di coppia come spazio e come processo procreativo

L’obiettivo della terapia di coppia diviene così la capacità di generare uno “spazio fisico e mentale” nel quale la coppia stessa affronti l’esperienza dell’infertilità, sia per quello che rappresenta per ciascuno dei due partner sia come capacità di osservare insieme e condividere le modalità con le quali la coppia sta vivendo questo tempo di infertilità. Offrire alla coppia un luogo ed un tempo per poter generare insieme delle modalità adattive “coniugali” all’avvenimento (l’infertilità) fa sì che il “terzo” (il figlio non concepito) aiuti la coppia ad esplicitare la qualità del rapporto ed attivare il passaggio ad uno nuovo stadio vitale della relazione.
La terapia di coppia, come processo di cambiamento, è allora uno spazio, mentale e fisico, ed un tempo all’interno di un processo nel quale la coppia ed il terapeuta inizialmente cercano di definirne la genesi e successivamente si accordano, con tutte le ambivalenze delle richieste di aiuto e di cambiamento, per creare uno spazio in cui la coppia cerca di individuare ed attuare, nel suo modo caratteristico e condiviso, la propria “coniugalità”. Dato questo obiettivo, la terapia rappresenta, nel suo svolgersi nel tempo, qualunque sia poi la modalità con cui la coppia elabora la propria infertilità (fino alla scelta di interrompere la relazione), un evento vitale che ha una direzione e uno scopo. Questo lavoro terapeutico può essere visto come un atto in cui i due partner, che arrivano con una esperienza ed un vissuto di infertilità, sono attivati dal terapeuta (che cerca di rispondere alla richiesta di aiuto) a divenire “fecondi”, cioè a generare un “terzo” che può essere diverso a seconda dei bisogni e del livello maturativo della coppia. Infatti, sia la richiesta di aiuto che l’obiettivo delineato inizialmente dalla coppia possono essere diversi a seconda della relazione coniugale che caratterizza la coppia stessa. E’ importante offrire uno spazio (metaforicamente “uterino”) in cui i due depositino e affrontino le proprie richieste, storie, aspettative, desideri e delusioni, paure e speranze, nonché decisioni e tentativi di attuarle in relazione al “progetto coniugale” interno ad ognuno dei due partner e spesso condiviso solo in parte al momento della costituzione della coppia. Perché ciò accada è necessario che la terapia permetta ai due di costruire questo spazio, queste interazioni, in una parola questa intimità e profondità di rapporto che per lo più manca nella coppia infertile, specie in quelle in cui è chiara la genesi “funzionale” dell’infecondità. In tal senso basti pensare alle difficoltà di attuare un rapporto sessuale procreativo per motivi sottesi al disturbo di personalità (vedi quanto ad esempio ha descritto in maniera articolata Kernberg nei vari studi sul comportamento sessuale nell’ambito dei disturbi narcisistici della personalità (Kernberg, 1978). D’altra parte esiste una “patologia del desiderio” che permette alla coppia di costituirsi ma che non rende possibile il passaggio ad altre forme di “organizzazione coniugale fantasmatica” come può essere, ad esempio, la costituzione di un “sé coniugale” (Eiguer, 1986).
E’ chiaro quindi che la terapia, nei suoi vari momenti di raccolta ed analisi della domanda di aiuto, di individuazione di obiettivi terapeutici condivisi e nel percorso ricco di tentativi ed errori, di cambiamenti e di retroazioni, di insight e difese, è un momento possibile perchè la coppia infertile trasformi l’esperienza di morte (del corpo e del desiderio), propria della infecondità, in un momento vitale in cui sia possibile generare uno spazio coniugante e di reciproco aiuto. La terapia diviene il luogo di gestazione e generazione di quei desideri di unione e di procreazione spesso non portati alla mentalizzazione e alla relativa verbalizzazione a causa delle difese immanenti a desideri fonte di angoscia (come può essere l’angoscia di castrazione di uno o ambedue i partner come pure le relative conflittualità edipiche Chasseguet-Smirgel, 1987).
Inizialmente lo spazio ed il tempo terapeutico sono fondamentalmente finalizzati affinché la coppia diventi presente in maniera sempre più chiara e si coinvolga sia di fronte al terapeuta che di fronte a se stessa. E’ il momento in cui la terapia permette, facilita ed amplifica il passaggio ad una conoscenza di sé e dell’altro e contemporaneamente rende possibile penetrare nel profondo dei singoli e della relazione. Questo si attua con diverse strategie e tecniche con le quali è possibile svelare:
– le storie delle relazioni, pubbliche ma anche intime, con i miti ed i segreti, le crisi ed i fallimenti, i successi e gli “eroismi” delle famiglie da cui provengono i singoli partner;
– la modalità di costituirsi della coppia, dall’innamoramento alla scelta di coniugalità;
– la modalità della vita sessuale in tutte le sue manifestazioni; dalle tenerezze ai rapporti sessuali, dalla sessualità utilizzata egocentricamente alle esperienze di condivisione orgasmica;
– le fantasie, le attese e le paure riguardo al “figlio che verrà” ed al proprio ruolo genitoriale.
Questo lavoro conoscitivo ha come effetto, tra gli altri, quello di porre la coppia, proprio a causa della loro infertilità e relativa richiesta di aiuto, in una relazione di svelamento sia nei confronti del terapeuta che nei confronti di ognuno dei due partner. Alla iniziale richiesta di “fertilità”, viene così anteposta una immersione nella storia dell’infertilità come modalità relazionale per la quale la coppia è unita a diversi livelli, consci o meno. Questa unità permette la costruzione di uno spazio comune fisico (il setting), dinamico (i processi sia nel contesto terapeutico che in quello quotidiano) corporeo, (a livello del funzionamento neuroendocrino in grado di facilitare i meccanismi di spermatogenesi e/o di ovulazione) e psicosessuale ( qui inteso come spazio coitale, unitivo e procreativo condiviso). La terapia dell’infertilità può allora divenire procreativa nel senso di generare il passaggio dalla coppia coniugale alla coppia genitoriale.
Man mano che si sviluppa la conoscenza, che sicuramente porta “novità” sia nelle informazioni condivise che nella relazione non più paralizzata dalle frustrazioni del desiderio, l’infecondità diviene l’occasione che attiva un percorso di ulteriore svelamento di dinamismi segreti che, una volta affrontati, possono rendere la coppia vitale. Questo lavoro, così come si può intendere in una terapia psicodinamica, è modulato dal parlare e dalle relazioni, in particolare quelle transferali, cosicché varie saranno le fonti del discorso psicoterapeutico quali elementi propri del triangolo terapeutico nella terapia di coppia: a) la “narrazione” che ogni partner e la coppia fanno di se stessi, b) il transfert multiplo, c) il controtransfert del terapeuta.

La narrazione

La narrazione deve essere considerata come un enunciato di “verità” narrate che rispondono alla modalità con cui ogni partner le espone, o perfino le conosce, all’interno di relazioni reali e fantasmatiche in cui il partner e il terapeuta sono presenti ed influenzano quanto detto (Gentili, 1988). La “verità narrata”, sia dai singoli partner che dalla coppia, permetterà così di ipotizzare i livelli difensivi, i desideri ed i relativi conflitti presenti nella relazione con l’ altro, di fronte ad una figura, quella del terapeuta, che necessariamente ha anche caratteristiche superegoiche se non addirittura persecutorie. Inoltre, tra le varie informazioni che ogni partner dà al terapeuta è di particolare interesse, per il tipo di psicoterapia adottato, conoscere il processo di relazione della propria famiglia specie per quanto riguarda l'”intensità emotiva” (Kerr e Bowen, 1988). Quando, infatti, i due partner hanno lasciato le rispettive famiglie di origine è ipotizzabile che abbiano cercato di scegliere come partner quello con cui era maggiormente possibile riprodurre i principali aspetti relazionali presenti nella famiglia originaria, almeno come il singolo individuo l’aveva percepita e/o desiderata (Kerr e Bowen, 1988). Si ha così una scelta per “concordanza” o “complementarità” emotiva che partecipa alla coesione della coppia. La scoperta e la situazione di infecondità sicuramente innalza il livello di ansia dei singoli coniugi e della coppia e la modalità di risposta a questo evento può portare alla comparsa o di un conflitto coniugale o di un disturbo evidente in uno dei due partner. Così la narrazione sulle famiglie di origine offre una possibile comprensione dei principali meccanismi di adattamento appresi nelle rispettive famiglie e che si manifestano, nella situazione di crisi, come risposta affettivo-emotiva, con la scelta di determinati comportamenti di malessere psico-fisico fino alla scelta dell’ulteriore futuro per la coppia stessa.

Il transfert

Una ulteriore fonte di informazioni e di possibili obiettivi per la psicoterapia di coppia è la comparsa, ad occhi addestrati a questo, di aspetti emozionali connessi al transfert multiplo verso l’altro partner e verso il terapeuta. Questo non solo ripropone antiche modalità relazionali e di vissuto con figure significative, specie nei confronti del comportamento psicosessuale e dei ruoli coniugali e genitoriali, ma anche nel “qui ed ora” può presentare alcune suggestioni che possono giustificare la componente emotivo-affettiva di una “infertilità” inizialmente inconscia e poi, ad esempio, aggredita o negata nelle strategie di adattamento a questa realtà.
Così durante la psicoterapia (accanto agli aspetti cognitivi della relazione di coppia così come ognuno dei due partner la “sta pensando” in un momento particolare di conferma o meno del progetto coniugale) si evidenziano quegli aspetti emozionali che accompagnano la diagnosi di infertilità. Infatti questa, specie dopo che i vari test di infertilità hanno evidenziato un chiaro disturbo fisico, come una malformazione uterina o un basso valore spermatico, si impone alla coppia per la sua “indiscutibile oggettività” ed attiva necessariamente un cambiamento anche nel sistema emozionale della coppia. La “distanza emotiva” tra i coniugi, fondata anche su proiezioni transferali, cambia e, spesso, proprio in base alle caratteristiche relazionali scelte e desiderate nella coppia, ognuno dei due partner chiede immediatamente una distanza nuova. Si attivano nuove configurazioni transferali che non sempre colludono tra di loro, come nei casi in cui almeno uno dei due richiede una maggiore dipendenza ed intimità. Si svela così nella coppia una nuova fantasia di relazione trasferale in cui ognuno dei due coniugi va a rappresentare “figure parentali” e richiede all’altro nuove relazioni che forse la “gravidanza impossibile” poteva nascondere. Ci si riferisce così ai bisogni di intimità emotiva, evitati con l’infecondità, connessi all’evento gravidanza che svela spesso paure più profonde di inadeguatezza, di perdita dell’oggetto amato, di rivalità e, in molti casi, di minaccia. La psicoterapia è il luogo di svelamento di transfert negati dall’accoppiamento e l’infertilità “biologica” diviene l’evento che può sviluppare una “nuova coppia” o determinare la fine della vecchia.
In particolare possono essere svelate quelle dinamiche connesse all’eventuale passaggio dalla “coppia” alla “famiglia”, di quei fantasmi di assunzione di ruoli già sperimentati nella propria storia e spesso rifiutati o temuti. Se questo lavoro di maturazione avviene in ambedue i partner, è probabile che l’infertilità andrà a generare un prodotto che è la nuova coppia, nuova per il livello di intimità e di svelamento di amori ed odi, di conflittualità e di bisogni prima mai condivisi. Se il cambiamento dovuto all’infertilità invece spinge i due in direzioni diverse, la vicinanza per l’uno e l’allontanamento per l’altro, il desiderio di dipendenza per l’uno e la fuga dal coinvolgimento per l’altro, appare il disturbo almeno in uno dei due partner e/o la crisi nella coppia, non tanto nel suo aspetto procreativo quanto piuttosto per quello unitivo.

Il terapeuta di fronte all’infertilità

Come in ogni situazione terapeutica anche il terapeuta si trova, nella sua interazione con la coppia, a vivere dinamiche intrapsichiche controtransferali. Come si è visto, anche recentemente, l’aspetto controtransferale è ormai divenuto un potente strumento sia conoscitivo che di individuazione dei possibili interventi da parte del terapeuta (Gentili, 1994). In particolare, nel trattamento della coppia infertile, il terapeuta, in quanto immerso in uno spazio che permette l’esplicitazione di aspetti dinamici spesso inconsci, può aiutare la coppia a sviluppare vissuti e comportamenti inespressi o addirittura neanche mentalizzati. Il terapeuta si assume il ruolo di “attivatore” del “discorso” sull’infertilità da parte della coppia e di “compagno coraggioso e competente” (Schaffer, 1984) dei partner in un viaggio di scoperta delle emozioni, delle difese e delle relazioni oggettuali che rendono inaccettabile sia l’infertilità ma forse ancora di più la fertilità condivisa in una relazione anche procreativa. Lo spazio ed il tempo della terapia divengono occasioni per acquisire un linguaggio rispetto al corpo fisico e a quello vissuto, rispetto al mondo “interno” che si svela o quantomeno vive in continua interazione con quello “esterno” cosicché la coppia può acquisire un linguaggio che “non ha” (Trankel, 1974) riguardo all’infertilità e contemporaneamente si confronta con qualcuno, il terapeuta, che si pone come chi assume una funzione di “svelamento” (Zavattini, 1988) di emozioni e pensieri all’interno della relazione terapeutica triadica. Il compito che si assume il terapeuta può portarlo a sviluppare fantasie e vissuti di “genitore” che corregge, che giudica, che può rendere fertile una coppia in realtà non adeguatamente “coniugata” a causa dei due patrimoni difensivi che non hanno permesso di oltrepassare i livelli consci del proprio e dell’altrui psichismo. Questa assunzione controtransferale del terapeuta nonché la diversità di competenze tra quest’ultimo, addestrato al linguaggio del corpo e della psiche, e la coppia possono generare durante il processo terapeutico situazioni di “incomunicabilità” reciproca e diverse “visioni della realtà” con possibile attivazione di valenze aggressive e manipolatorie tanto più distruttive quanto procedono anche dal terapeuta stesso. Questo tipo di relazione suscita a sua volta nel paziente l'”odio” (Groves, 1978) verso tutto ciò (la fecondità) e tutti coloro (lo psicoterapeuta, il medico) che incontra a causa della propria infecondità così da creare la situazione di “angry patient, angry doctor” (Longhurst 1980).
Altre volte, inoltre, di fronte alla coppia che presenta difficoltà a rappresentare ed esprimere le proprie emozioni, il terapeuta si trova, per così dire, in compagnia delle proprie identificazioni proiettive (Taylor, 1983) che gli suggeriscono sia la presenza di difficoltà profonde ed arcaiche ad entrare a contatto con il proprio corpo, soprattutto “di fronte all’altro”, che una “impenetrabilità” psichica e fisica spesso reciproca.

La terapia come spazio generativo, fisico e mentale

Come è possibile osservare da quanto detto, la psicoterapia di coppia, fondata sull’analisi delle relazioni sia esterne al soggetto che interne (le relazioni oggettuali ed i relativi desideri, conflitti e difese), pone l’accento sia sulla causa scatenante la richiesta di aiuto (che va dalla ricerca dei supposti “motivi psicologici” dell’infecondità alla cura di determinati sintomi temporalmente connessi alla presa di coscienza dell’infecondità stessa) sia sul “come” è stata disturbata la relazione coniugale, a tal punto che qualificare la reazione alla situazione esistenziale di infecondità genera disturbi nell’equilibrio psicologico individuale e relazionale della coppia infertile. La multifattorialità delle cause dell’infertilità, conosciute o ipotizzate, richiede che la psicoterapia di coppia si muova accanto ad interventi biologici e psicologici e sia trasformativa nel senso di “ristabilire una direzione significativa alla propria vita e a quella della coppia” (parafrasando ciò che Le Shan dice per la terapia del cancro). La psicoterapia espressivo-supportiva ha tra le sue caratteristiche quella primaria di incentrarsi sulle modalità di relazione, agite e vissute, anche se chiaramente la “porta d’ingresso” di un soccorso psicologico rimane l’infertilità, come sintomo biologico che innesca ansie, fobie o altri sintomi psichici fino all’angoscia e alla depressione. La ricerca congiunta di una soluzione all’infertilità o, in altri casi, la ricerca di una soluzione ad una crisi che minaccia l’integrità della coppia (come accade nei casi in cui la ricerca della distanza dall’altro innesca la ricerca di separazione o annullamento del legame coniugale, fino, infine alla richiesta di una terapia per i sintomi psichici che accompagnano l’adattamento alla nuova situazione o alla ricerca compulsiva di una gravidanza “a tutti i costi”) sono le più frequenti situazioni di “domanda di aiuto”. L’offerta di uno spazio di ascolto per tali richieste, la loro ridefinizione positiva, in quanto espressione di una unità di desideri e delusioni, ed il progressivo svelamento delle profonde difficoltà ad attuare un legame che si desidera totale ma che si svela per lo più parziale (nonostante gli anni di conoscenza e frequentazione reciproca), sono le caratteristiche di un processo terapeutico che offre un progredire “a tappe”.
La terapia inizia da una prima fase in cui l’infertilità, come avvenimento biologico-relazionale, è l’occasione per svelare la qualità delle relazioni emotivamente significative per ogni individuo (quali quella verso il proprio ed altrui corpo e l’assunzione di nuovi ruoli e nuove persone, i figli, nell’ambito della coppia). Successivamente, il complesso di informazioni, emozioni e relazioni interagite, man mano svelate nella terapia, possono perdere il valore di minaccia per essere assunte come elementi che appartengono alla coppia e sui quali si può continuare a svolgere un intervento di trasformazione. In questa seconda fase il terapeuta deve monitorare l’intensità dei vissuti correlati all’emergere nella coppia di ansia, di rabbia espressa, di paure che possono inoltre collegarsi a sentimenti di colpa, di vergogna, di dolore e stare attento a non innescare fantasie di “inseminazione” nella coppia stessa. In tal senso possono essere interpretati, ad esempio, i tentativi da parte del terapeuta di eccessiva mobilizzazione dei sentimenti repressi nei due partner o di ricerca di continue “scoperte” cognitive sul passato della coppia. Queste situazioni, divengono facilmente fonte di accuse reciproche e suscitano vissuti di inutilità o impossibilità a cambiare come, ad esempio, l’eccessiva attenzione per la ricerca anamnestica, spesso non equamente bilanciata nei confronti delle due storie di vita portate dalla coppia, che è vissuta come la ricerca del genitore colpevole o di supposti traumi infantili che bloccano ogni possibile maturazione psicosessuale in uno dei due coniugi. Questo comportamento del terapeuta è tanto più grave se si pensa che talora la coppia non è in grado di scegliere autonomamente l’interruzione dei trattamenti, sia di tipo diagnostico che di riproduzione assistita, a cui si sta sottoponendo (Scopesi, 1995) e fa riferimento al personale sanitario per prendere la decisione in merito. Risulta allora fondamentale un lavoro terapeutico che tenga conto delle risorse di adattamento alla frustrazione e sia volto alla costruzione di una decisione “coniugale” di “chiusura alla speranza”, non solo favorendo adeguate conoscenze biologiche ma soprattutto aumentando i livelli di condivisione volti ad interrompere la coazione difensiva a ripetere, ad esempio, inutili cicli di FIVET (Reading e Kerin, 1989).
In conclusione la terapia di coppia può essere utile prima, durante e dopo la conclusione di trattamenti volti alla fecondità (Donegan, 1994), in quanto cerca di sviluppare la capacità della coppia di far emergere, anche sul piano fisico, le proprie potenzialità generative. Queste sono per lo più semplificate nel desiderio di avere un figlio: tocca alla psicoterapia ampliare e complessificare tali caratteristiche cosicché la coppia possa in ogni caso, con o senza il figlio, affrontare anche il desiderio conflittuale, ma prettamente umano, di scansare la filiazione (Chasseguet-Smirgel,1996) “generando” una nuova situazione di amore maturo.

* Professore Associato presso il Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica Facoltà di Medicina e Chirurgia “Università la Sapienza” di Roma.

Bibliografia

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d0e8f8c160c6f89afeeb2c8d5f7b84e15c2e2a08Ovvero il terapeuta in stato di Flusso/Riflessività.

Michele Cavallo & Sergio Stagnitta *

Delle ali e un altro apparato per respirare che ci permettessero di attraversare l’immensità degli spazi, ci sarebbero inutili, perché se salissimo su Marte o Venere conservando gli stessi sensi, questi rivestirebbero dello stesso aspetto delle cose della Terra tutto quello che potremo vedere. L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza, sarebbe non andare verso nuovi paesaggi, ma avere altri cento occhi, vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri, vedere i cento universi che ciascuno vede, che ciascuno è. Proust “La prigioniera” Continua…

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Claudio Naranjo: Intorno al transpersonale.

claudio_6Intervista raccolta da Antonio Ferrara**

 

D: So che non ti piace il termine “transpersonale”, parola che è molto usata per definire un particolare tipo di approccio alla psicologia.

R: Credo che sia una parola evocativa. In realtà l’ho utilizzata nel mio primo libro: “The one quest” prima che entrasse in uso. Poco dopo aver scritto il capitolo in cui compariva la parola “transpersonale”, usciva la rivista di Psicologia transpersonale e poi scoprii che anche Jung aveva usato questo termine. Forse la prima persona ad usarla fu Rudhyar, un astrologo francese.

D: La ritieni una parola evocativa. Puoi dire di più?

R: Nonostante sia una buona parola per designare quello che si trova oltre la personalità, oltre il corpo e le emozioni, oltre l’intelletto, mi sembra che sia stata usata come eufemismo per evitare di usare il termine “spirituale” e, in questo senso, diventa una parola propagandistica, un poco astuta, utilizzata per sembrare più scientifici ed essere accettati nel mondo della psicologia, nel quale la parola “spirituale” è associata al religioso e quindi potrebbe risultare antiscientifica.

D: Quindi nutri dei dubbi sulla scientificità del movimento transpersonale?

R: Di fatto non mi sembra che sia più scientifico dei movimenti religiosi. Si potrebbe giustificare l’eufemismo e questa strategia, se il movimento transpersonale fosse più scientifico di quello che è. Io personalmente, sebbene sia stato definito uno dei pionieri della psicologia transpersonale, non l’ho usata nel mio lavoro se non raramente e non mi sento vicino alle persone che si definiscono “psicologi transpersonali”. Non ho una grande ammirazione per questo “circolo”.

D: Quali sono le tue idee circa la possibilità di integrazione tra psicoterapia e psicologia transpersonale?

R: Invece di parlare di integrazione tra psicoterapia e psicologia transpersonale, come se la psicologia transpersonale fosse qualcosa di definito, preferisco rispondere alla domanda: come integrare la psicoterapia con la spiritualità.

D: Mi sembra molto interessante, mi piacerebbe che ne parlassi di più.

R: Otto anni fa, in occasione di un congresso della Società di Psicologia Umanistica europea in Svizzera, ho avuto un incontro con Keyserling che forse è il più interessante dei rappresentanti della psicologia transpersonale in Europa. Egli parlò per primo e io gli facevo da traduttore dal francese, cosicché feci molta attenzione a quel che diceva. Disegnò una piramide alla lavagna mostrando l’evoluzione di tutte le psicologie, dal comportamentismo, attraverso la psicoanalisi, alla maggiore sofisticazione della psicologia umanistica, poi le diverse fasi della psicologia esistenziale culminando con la psicologia transpersonale, come vertice della piramide. Dopo di lui ho parlato io e ho detto che, sebbene cronologicamente questo sia stato lo sviluppo delle tendenze nella psicologia, mi sembrava che la psicologia transpersonale fosse una scatola vuota. Se vogliamo trovare in essa un vero contenuto, meglio cercarlo nelle psicologie transpersonali prescientifiche: nella psicologia del Buddhismo, nella psicologia implicita nel Sufismo e addirittura nella comprensione psicologica dei Rabbini, in generale in tutte quelle tradizioni spirituali che hanno trattato gli aspetti psicologici in maniera “saggia”.

Più si evolve la psicologia meno troviamo quella che può chiamarsi “psicologia transpersonale” che oggi è spesso, in definitiva, un modo di nascondersi e poter dire: ” la psicologia transpersonale lo dice “. In realtà è un’intenzione molto buona quella di avvalorare ciò che nel campo psicologico non rientra nell’orbita scientifica, per avvalorare un interesse per il paranormale, la creatività, la psicologia della religione e così via. L’intenzione esiste, però non esiste un corpo unitario di conoscenze, anche se molte persone lavorano per contribuire alla sintesi attingendo un po’ da una parte e un po” dall’altra. Per esempio, in Svizzera, c’è uno psicologo ceco, il cui nome non ricordo in questo momento, che conosce molto bene il Buddhismo Hinayana e che ha scritto sull’integrazione tra la concezione della psicologia dell’Abhidarma e lo Psicodramma. Egli conosce lo psicodramma profondamente e quindi scrive di una psicologia antica stabilendo le connessioni con quella moderna. Allo stesso modo altri stanno facendo piccole integrazioni. Stando così le cose, mi sembra un poco artificiale parlare della “psicologia transpersonale” come se fosse un corpo integrato di conoscenze.

D: Quindi si può dire che sono integrazioni che vanno ad arricchire il corpo della psicologia occidentale classica aprendola a nuovi e più ampi orizzonti.

R: La psicologia transpersonale afferma che esiste il transpersonale, in altre parole che esiste lo spirituale, che esiste un ambito di esperienze che vanno ben oltre le esperienze interpersonali o le esperienze di relazione con gli oggetti del mondo fisico. Esiste il mondo che a volte è detto “della coscienza”, perché si usa molto chiamarla “psicologia della coscienza”, e al di fuori di questo il fattore spirituale è anch’esso terapeutico. Non solo è terapeutico comprendere la psicodinamica, non solo è terapeutico lo sforzo di cambiare il comportamento, ma anche l’esperienza di coscienza espansa, la coscienza del divino e, per ultimo, “la coscienza della coscienza” è un fattore importante nella psicoterapia. Io aggiungerei che non solo questo ma anche la prospettiva del cammino interiore è terapeutica. E’ terapeutico, per una persona che si trova in una fase di cambiamento, comprendere questo processo come qualcosa che va più in là della cura dei sintomi, o più in là dell’adattamento sociale, dunque, capire un po’ la natura della trasformazione, del fine ultimo. In termini molto generali, conoscere qualcosa che tradizionalmente è stato chiamato “gli Insegnamenti”: insegnamenti rispetto al destino umano, alla natura del cammino interiore.

D: A volte, quando si parla in questi termini, le persone più “scientifiche” pensano che si vada nel misticismo, nell’astratto, in quello che solo la religione può raggiungere, invece so che nel tuo lavoro c’è grande concretezza e attenzione ai risultati verificabili. Quale potrebbe essere l’elemento  terapeutico trasformatore, in senso transpersonale, per come tu lo intendi?

R: Io credo che un fattore che si può chiamare transpersonale è il fattore della coscienza in se stessa. In realtà la coscienza non appartiene al mondo del corpo, non appartiene al campo volitivo, non appartiene al campo affettivo né al campo cognitivo, secondo il significato corrente. L’attenzione a sé, quando diventa pratica quotidiana, è un fattore transpersonale. Direi di più: il livello di attenzione di una persona è un’energia che si irradia e l’esperienza gruppale è un fattore molto importante di questo passaggio di attenzione attraverso la quale anche le parole producono un effetto amplificato, come se fosse puntato un faro luminoso su ciò che si osserva. Nella Gestalt, in modo particolare, l’attenzione è molto più che un mezzo per scoprire qualcosa, l’attenzione è un fattore di sanità in se stesso. Si può dire che la Gestalt ha la pretesa di restaurare la capacità di attenzione, la capacità di stare nel qui ed ora, che non è stare qui ed ora per capire qualcosa del passato, ma piuttosto di capire “a volte” qualcosa del passato per poter stare qui ed ora. E’ fine a se stessa, è come un diritto, qualcosa che appartiene alla salute e che merita di essere restituito all’uomo. Anche l’amore lo considererei un fattore transpersonale, però la maggior parte delle volte quello che chiamiamo amore è un amore in fondo seduttivo, un amore-piacere che significa ricerca di gratificazione dei nostri impulsi istintivi o passionali. Il vero amore è uno stato senza oggetto, il vero amore ama tutto quello che gli è posto davanti. E’ come un’allegria senza fine, senza finalità. E’ anche parte della salute, di modo che se c’è amore, uno ama se stesso e chi gli sta davanti. Tanto è più grande l’amore quanto meno è condizionato. Con questo non voglio dire che l’amore debba essere incondizionato, senza limiti, ma che la natura del vero amore è come una luce che irradia in tutte le direzioni. Non si ama “per la tale cosa”, perché ci gratifica, perché ci approvano, perché ci danno amore o perché una persona ha determinate caratteristiche, determinati meriti, ma piuttosto si ama il “tu”, l’altro, si ama l’essere che c’è dietro ognuno. Questa qualità d’amore, che è parte integrante di tutte le tradizioni religiose, è un fattore transpersonale.

D: Mi sembra che nel tuo lavoro insegni a sperimentare e a contattare le esperienze alle quali fai riferimento attraverso tecniche specifiche e questo mi sembra il passaggio più difficile.

R: Si, io sono stato molto pratico nel mio avvicinamento a questi argomenti e mi sono dedicato, per esempio, a tradurre certi principi della meditazione sul piano interpersonale, sviluppando tutto un capitolo sulla meditazione relazionale o estensioni interpersonali della meditazione.

D: Questo vuol dire anche riportare il livello cosiddetto transpersonale ad una concretezza immediata, a qualcosa cioè che si può sperimentare subito, nella vita quotidiana.

R: Si dice nelle tradizioni antiche che la meditazione idealmente dovrebbe espandersi in tutte le situazioni della vita. In realtà è molto difficile, c’è bisogno dell’allontanamento dal mondo per ritornare al mondo con un contatto più profondo con sé o con un maggior sviluppo della propria capacità di attenzione. Però non è necessario aspettare dieci anni affinché si compia lo sviluppo, come nel Buddhismo Zen in cui la persona ha bisogno di sperimentare molti “satori” progressivi prima di poter fare la pratica quotidiana spontanea. Fin dall’inizio del mio lavoro ad Esalen, negli anni ’60, mi sono occupato di accelerare il processo di meditazione nella pratica da soli ma anche “faccia a faccia” con un altro. E’ un po’ come nello spirito di tutte le riunioni religiose nelle quali viene validata la sacralità della comunità, come nel Vangelo quando Cristo dice: “Se due si riuniranno nel mio nome io sarò presente”. Io credo che ciò sia valido anche se due persone meditano insieme. Stando uniti nasce un potere speciale e nonostante ci sia una certa difficoltà ad entrare in contatto con sé stesso stando di fronte ad un altro, ad entrare in contatto con la propria esperienza di fronte alla potenziale distrazione di un testimone, è anche vero che c’è un elemento di contagio e le due cose si compensano. Mi sembra che per certe persone sia più facile la meditazione solitaria e per altre invece sia più facile la meditazione condivisa, forse questo ha una relazione con l’introversione e l’estroversione.

D: Come collochi il tuo lavoro, ormai ventennale, con l’Enneagramma e la Psicologia degli Enneatipi nella concezione che stai presentando di incontro tra spirituale e psicoterapia?

R: Tutto quello che è relativo all’applicazione dell’Enneagramma è una psicologia prescientifica che però facilmente si può tradurre in una terminologia scientifica, perché il fatto che sia cronologicamente antica non vuol dire necessariamente che sia meno scientifica della psicologia freudiana. Quello che ho fatto io rispetto a questa particolare psicologia transpersonale è stato di svilupparla e renderla più esplicita di quello che era quando l’ho ricevuta attraverso una trasmissione orale, perché non esisteva niente di scritto in quel tempo, e l’ultima tappa di questo sviluppo è la formulazione nella quale mi sono impegnato, di una teoria transpersonale della nevrosi. Una teoria che mette l’accento non sulle vicissitudini dell’istinto, come nella tradizione freudiana, ma su un fattore molto centrale: la perdita dell’essere. L’esperienza del vuoto o l’esperienza dell’alienazione di se stesso, l’esperienza che R. D. Laing ha chiamato “insicurezza ontica” e che io preferisco chiamare “carenza ontica”. La mia visione è che tutto il mondo passionale o tutto il mondo della libido, non di eros bensì della libido, perché mi piace fare una distinzione tra queste parole, il mondo dei desideri quindi, è un mondo che si alimenta del vuoto. E’ come se tutta la passionalità fosse stimolata dal desiderio di riempire il vuoto che resta a causa della perdita del senso dell’essere, voglio dire per la perdita dell’esperienza diretta dell’essere. Sebbene possiamo dire astrattamente “sono”, filosoficamente non abbiamo l’esperienza dell'”Io sono”, che si può dire sia ciò che appare come “il più divino” nell’essere umano. Solo la parte divina nell’essere umano può dire “sono quello che sono”. L’esperienza dell’essere è qualcosa che, paradossalmente, più la persona cerca, meno riesce a raggiungere e viceversa. L’esperienza dell’Io è un’esperienza molto fragile, quasi illusoria, è qualcosa che si vede con la coda dell’occhio e appena si guarda di fronte, scompare. Quanto più si cerca l’Io, tanto meno si trova. Dunque mi sembra che il lavoro sulla carenza in questo senso, non la carenza amorosa che studia la psicologia dinamica ma la carenza ontica, dia un’altra dimensione alla psicoterapia, una dimensione peraltro piena di speranza perché l’amore di vent’anni fa non si può ritrovare, però l’essere è sempre presente, solo che dobbiamo sviluppare la capacità di rimuovere il velo che ci separa da esso.

Una delle mie realizzazioni teoriche è stata la formulazione di una teoria della nevrosi e degli aspetti caratterologici che accompagnano gli stili nevrotici. Da questo punto di vista tutte le nevrosi sono una ricerca disperata dell’essere che “riposa” in una perdita dell’essere, e la perdita dell’essere si sostiene con la stessa ricerca dell’essere là dove non c’è. Ho lavorato sistematicamente a partire dal carattere perché penso che la base della nevrosi sia caratterologica, non credo, come qualcuno ha proposto, che la nevrosi del carattere sia una complicazione della nevrosi, ma piuttosto che la nevrosi sintomatica sia una complicazione della nevrosi caratterologica di base.

D: Hai fatto cenno poco fa al deficit dell’essere definendolo come una carenza ontica, mi pare che in questo discorso rientri la tua ricerca nel Buddhismo e l’approfondimento dei suoi vari livelli.

R: E’ vero, però mi piacerebbe dire al riguardo che esistono due “vocabolari” nel mondo delle tradizioni spirituali. L’attitudine del Buddhismo è trovare alla radice della vita un “vuoto fondamentale”. Con questo si vuol dire qualcosa di trascendente, qualcosa che non si può definire concettualmente e che fuoriesce da tutte le categorie di pensiero. Questo modo di vedere esiste anche in altre tradizioni come ad esempio l’Induismo secondo il quale, al centro della persona, si trova un “self” un sé stesso. Una delle mie tesi, durante molti anni dalla pubblicazione di “The one quest”, è stata che questa polemica religiosa, se la verità si trovi nel “self” o nel “non self”, rifletta anche due stili di simboleggiare, il che non comporta una differenza fondamentale rispetto alle implicazioni pratiche. Tanto il meditare sul vuoto quanto il meditare sul self indirizzano la mente verso il centro di sé stessa o il meditare su Dio. La differenza non è così radicale come sembrerebbe. In tutti i casi è certo che nel Buddhismo si abitua la persona a svuotarsi di sé stessa, si abitua la persona a stare senza punti di riferimento, esiste una vera educazione a lasciar andare l’attaccamento a forme di comportamento o idee. Lo stesso si può dire del taoismo, il Tao è, nella sua essenza, vuoto e questa concezione di vuoto ispira il coltivare la fluidità.

D: Cosa puoi dire di più su questa idea di vuoto che spesso è difficile comprendere da chi non è dentro l’esperienza: in generale si teme che il vuoto sia un non esistere.

R: Nel Buddhismo si parla in due sensi di vuoto. La vacuità, la mancanza di significato del Samsara, la insostanzialità del Samsara, che è un’idea che si sviluppa quanto più la persona è risvegliata spiritualmente. Come diceva il sufi Bayasid Bistami, anche se stiamo parlando di Buddhismo, “quanto più vivo, meno mi interessa il mondo, più mi interessa Dio”. Si può dire che quando una persona matura spiritualmente gli interessano sempre meno le cose del mondo, cominciano cioè a sembrare superflue, come i giocattoli che un bambino lascia da parte, i piaceri sensoriali, i piaceri della vanità, i piaceri legati al potere, di fronte ad una soddisfazione più profonda che non può dare nessuna cosa al mondo. Questa può essere una nozione di vuoto: è come svuotare il mondo di significato. Un altro senso è che il supremo, l’assoluto, quello che cerchiamo ben oltre il mondo, ha una natura di vuoto. In questo senso è qualcosa di cui non si può dire niente. Tutto quello che possiamo dire di qualsiasi cosa si trova dentro una polarità: di tutto si può dire il contrario. Allora il vuoto ha un senso di ineffabilità che non è un niente ma che non ha caratteristiche denominabili, specifiche. Io credo che questi due tipi di vuoto non siano diversi come sembrano perché, se ci si permette distare nell’indefinito, nel vuoto che lascia il mondo e le sue soddisfazioni, si crea un’apertura verso ciò che non è sullo stesso livello del concettuale, o dell’emozionale, o del volitivo.

Ci si può chiedere cosa sia il transpersonale se non è corpo, non è emozione, non è intelletto. Si può dire che è niente, però non un niente negativo, bensì un niente in cui è radicato l’essere. Parlando in forma approssimativa si può dire che la visione risvegliata della vita è una visione nella quale tutte le cose che quotidianamente si dice “esistano”, sono come ombre, sono derivate, sono riflessi dell’essere, sono come la caverna di Platone, un mondo che ha qualcosa della natura del sonno rispetto all’essere assoluto; ma in questo senso si può dire che solo il non-essere, è. Solo quello che dal nostro punto di vista ordinario sembra non essere, è quello nel quale può trovarsi l’esperienza dell’essere. E’ un poco come dire che solo consegnandosi alla morte si può trovare la vera vita, mentre più ci aggrappiamo alla vita più ci distruggiamo, più ci inibiamo nel flusso della vita.

D: Tu ti stai occupando di più tradizioni spirituali, non solo del Buddhismo ma anche del Cristianesimo, del Sufismo, dell’Induismo, dello Sciamanismo sudamericano. Hai trovato un punto di connessione, un punto comune a tutte queste tradizioni?

R: Ho avuto la fortuna di avere maestri di diverse tradizioni, ho avuto provvidenzialmente l’opportunità di conoscere grandi rappresentanti dallo Sciamanismo fino al Taoismo e nel mio primo libro, “L’unica ricerca” o “The one quest” mi sono proposto di rispondere a questa domanda però non dal punto di vista che potremmo chiamare teologico, o filosofico, o ideologico. Sebbene si possano trovare alcune cose in comune a questo livello, non se ne trovano tante come sul piano dell’esperienza. Io credo che il punto comune sia l’esperienza della trasformazione, che è conosciuta in tutte le culture. Nello Sciamanismo viene concepita come un’esperienza di morte e rinascita, così come presso gli antichi egiziani, come nel Cristianesimo. Nel Buddhismo si propone come un’esperienza di “annichilimento” che accompagna l’arrivo della saggezza, la conoscenza trascendentale.

Nell’Islam sono usati i termini astratti di “fanà” e “baqà”, entrambi intesi come qualcosa che arriva dopo la scoperta del proprio nulla, la scoperta che attraverso di noi vive solo l’essere universale. Io credo che la conoscenza del divino sia presente in tutte le tradizioni ed è secondario se la si chiama “divino” oppure no. Lao Tze per esempio dice che il Tao è la “nonna di Dio”. Invece di essere chiamato Dio, Il Tao è come un principio più arcaico che non si personalizza. Si può dire che Dio è un antropomorfismo, il che è perfettamente permesso, anche se, per una mente filosofica, può essere meno soddisfacente.

Addirittura nel Cristianesimo ci sono stati teologi come Dionisio Aeropagita, che insistono sul “Deus Absconditus” e sull’oscurità del divino, sullo sconosciuto dal punto di vista intellettuale, che si trova più in là dell’idea di Dio. Ad ogni modo, che il divino lo si chiami Tao, lo si chiami Dio o lo si consideri come la natura della mente, è qualcosa di presente nella vita dei ricercatori di tutte le culture e se s’incontrassero non ci sarebbe il limite delle parole per riconoscersi mutuamente. Quelli che si sono risvegliati, nelle diverse vie, scoprono che la coscienza è una e s’incontrano in una risonanza che non ha bisogno di appoggiarsi sulla comparazione di teorie. Anche a livello pratico e tecnico c’è una grande somiglianza tra le vie, per esempio cose concrete come l’uso della respirazione per entrare in contatto con una coscienza più sottile, si trovano tanto nella tradizione Buddhista giapponese quanto nella tradizione Sufi o nelle terapie corporali moderne. Includerei anche le vie di crescita occidentali, sebbene non abbiano l’antichità né l’autorità così provata attraverso i secoli delle vie orientali, si possono però vedere dei punti di contatto, punti di somiglianza molto grandi. In “The one quest” c’è un chiarimento della natura del processo, io dico che uno degli aspetti è il risvegliarsi. Tutte le vie hanno a che vedere con il passaggio dall’incoscienza alla coscienza, si tratti della psicologia freudiana, della via del risvegliarsi del Buddhismo o della via del risveglio del Sufismo. Si tratta dello sviluppo della coscienza stessa. Tutte le vie riconoscono anche il bisogno di un cambio di identità, dal piccolo Io al grande Io, dall’Io fittizio, dalla piccola mente con cui ci identifichiamo quotidianamente, a quella che si potrebbe chiamare in alternativa la “grande mente” o il self o come lo si voglia chiamare. E’ un passaggio molto conosciuto, si tratti di Yoga o di Psicoterapia o di Taoismo.

D: In quest’ottica si potrebbe considerare la psicoterapia come un livello di una ricerca più ampia che sfocia nello spirituale?

R: Io penso che la psicoterapia è uno Yoga delle relazioni, uno Yoga relazionale, così come esiste il Karma-Yoga nelle vie indù tradizionali, uno Yoga dell’azione concreta, cioè dell’azione corretta. La psicoterapia è come uno Yoga per la revisione delle relazioni umane, non attraverso il dovere o il modello di azioni derivanti da norme stabilite, ma piuttosto attraverso la revisione delle motivazioni. Si tratta però di una correzione, di un affinamento delle relazioni umane che hanno molto in comune con le vie dell’azione, è una via d’azione attraverso l’insight psicologico, attraverso il guardare dentro la sottigliezza del mondo interiore. E’ un modo specificamente moderno, sebbene sia esistito tradizionalmente nel contesto delle relazioni maestro-discepolo. La relazione di un Rabbino con un allievo, la relazione di un Guru tibetano con un allievo, sono estremamente sofisticate dal punto di vista psicologico, non hanno meno senso e meno ricchezza di quello che ha il contatto terapeutico, perché si tratta spesso di persone addirittura veggenti e molto creative nel loro modo di influire o di far vedere qualcosa. Ma la specialità del lavoro relazionale, la specialità di aiutare in maniera più scientificamente delineata, è un contributo nettamente occidentale. Credo che sia un apporto importante alle vie tradizionali, un apporto che prende in considerazione l’aspetto espressivo, non solo comunicativo, attraverso le parole ma anche mimico, come lo psicodramma per esempio. E’ un mezzo per conoscere meglio il mondo delle emozioni ma se si limitasse a questo potrebbe essere insufficiente, nel contesto però di una concezione più ampia è molto valido.

D: Cosa pensi del contributo cognitivo che porta la psicologia?

R: Credo che c’è un gran futuro nella terapia cognitiva applicata al carattere, si sta arrivando ad un punto molto centrale che si incontra con il lavoro che si fa nella psicologia dell’Enneagramma.

D: Cosa pensi del discorso di Wilber a proposito dei livelli di conoscenza transpersonale?

R: L’Associazione di Psicologia Transpersonale ha fatto di Wilber il suo eroe, a volte si dice che sia il William James dei tempi moderni e mi sembra che sia un uomo di molto talento che però è stato sopravvalutato nel dargli un ruolo così importante. Ha richiamato molto l’attenzione in parte perché è una persona erudita che comprende Gebser e ha letto Piaget, Margaret Mahler e altri pensatori sul tema dello sviluppo umano. Però egli ha suscitato molta impressione nei transpersonalisti americani perché questi sono poco eruditi ed è eccezionale avere un transpersonalista che legga libri e che comprenda le cose più scientifiche. Wilber ha preso le fasi dello sviluppo di psicologi classici e ha aggiunto fasi tradizionali dello sviluppo spirituale, come in una scala. Questo è più o meno ovvio farlo, però mi sembra che ci sia una limitazione nella forma in cui ha presentato le cose, oltre alla quantità di errori che sono gli errori di una persona che ha conosciuto le tradizioni attraverso studio accademico e reale interesse, ma poco come esperienza vissuta. L’errore fondamentale mi sembra che sia la presentazione dello sviluppo come una scalinata diretta verso uno stato supremo invece di riconoscere il processo ciclico di ascesa e caduta, la cosiddetta notte oscura dell’anima.

D: Vuoi parlarne più dettagliatamente?

R: Ho appena finito un libro il cui primo capitolo si chiama “Il viaggio dell’eroe come teologia mistica” e la proposta è che il modello mitico, la struttura degli argomenti di molti miti e fiabe, è l’eco di un’esperienza interiore riconosciuta in tutti i tempi. Però in questo libro richiamo l’attenzione sulla visione più conosciuta, la schematizzazione del viaggio dell’eroe che viene presentata da Joseph Campbel in tre fasi: un andare, avere un’avventura in un mondo lontano e un ritornare.

Mi sembra che se facciamo un’analisi più sottile delle fiabe e dei miti troviamo che nella storia dell’eroe ci sono due tipi di vittoria: una prima vittoria che è transitoria e seguita da un tradimento, da una perdita, da un viaggio all’inferno, da qualcosa di terribile e dopo, alla fine, una vittoria definitiva, c’è quindi un’ascesa, una caduta e poi di nuovo un’ascesa.

Questo corrisponde esattamente alla teologia mistica cristiana dove si parla della via purgativa, il viaggio dello sforzo che culmina con la via illuminata, il periodo in cui una persona si sente piena di grazia, vicina a Dio, con accesso ad esperienze spirituali, che però ha la caratteristica di essere un’esperienza che non dura, dura cioè per un periodo limitato di tempo ed è seguita da quello che San Giovanni della Croce chiamò “la notte oscura dell’anima “, un periodo di maturazione, di morte interiore e, contemporaneamente, di gestazione di una nuova vita. Ciò che sembrava essere la nascita di un essere spirituale si trasforma nello sviluppo di un’agonia interiore e l’esempio più conosciuto di tutto questo, al di là di tutti i miti, è la storia di Cristo, che oggigiorno si ricomincia a capire come una storia del Cristo interiore, dopo molto tempo di dominio letterale. Nell’età media si sapeva molto bene qual era il senso del Calvario, al di là del letterale, e la prova di questo era un detto: “Pochi arrivano a Betlemme e ancor meno sono quelli che conoscono il Calvario”, in pratica la nascita del Cristo interiore, per rara che sia, è più comune dell’esperienza della morte del Cristo interiore, vale a dire la perdita della spiritualità che è la porta per accedere allo stato di completezza. La “Vita Nova” di Dante rappresenta una nascita spirituale. E’ chiaramente un’opera simbolica su una nuova vita; poi muore Beatrice e dalla morte dell’amore scaturisce una nuova vita che porta Dante fino ad incontrarla nell’al di là. Dunque ” La Divina Commedia” non è il racconto del viaggio interiore per intero, bensì la seconda parte. “La Divina Commedia” inizia con “la notte scura della anima”, con la discesa all’Inferno e il passaggio per il Purgatorio per ritrovare il Paradiso, che è già stato conosciuto transitoriamente e un po’ meno profondamente all’inizio della sua vita.

D: Pensi che il ciclo dell’ascesa e caduta dell’anima si ripeta più volte nel corso di una vita umana?

R: Sostanzialmente mi sembra che per quanti cicli ci siano nella vita ordinaria e che per quanto possano esserci addirittura oscillazioni cicliche dopo la realizzazione suprema, essenzialmente sono cicli di un altro ordine. La configurazione del viaggio non è molto complessa, non consiste di cicli indefiniti. C’è un solo monte Sinai nella vita di un uomo, un’iniziazione vera della via e, poi, la seconda nascita che nel Cristianesimo si preferisce chiamare Resurrezione, una nascita più radicale che è la finalità della via ed è, piuttosto che la morte dell’uomo vecchio, la morte dell’ego; non solo un nuovo inizio, bensì il fine che rappresentò l’Esodo con la morte di Mosè alle porte della Terra Promessa. Arrivati a questa condizione ci possono essere cicli, però questi sono contemplati in uno stato di comunione universale. All’inizio del cammino l’uomo è soggetto alla grazia, c’è un’alternanza, c’è un elemento di azzardo, alla fine del cammino la persona ha guadagnato il suo diritto di entrare in cielo e per la sua stessa natura e nonostante ci sia un elemento di fluttuazione della vita, nessuno potrà disfare questa nascita. L’uomo non ritorna al ventre della madre un’altra volta. Ciò non significa che l’evoluzione non continui. Io credo che lo sviluppo spirituale possa continuare, però non mi sembra chiaro dai documenti che esistono e nemmeno è qualcosa di cui io possa parlare personalmente perché appena comincio a sentire l’odore della Terra Promessa. Ci sono opere letterarie che suggeriscono cicli, per esempio nella Bibbia dopo la Terra Promessa, dopo che sono crollate le mura di Gerico, con il libro di Giosuè c’è di nuovo un periodo nero, ci sono guerre, c’è disunione e poi c’è un nuovo periodo di gloria con la unificazione del regno fatta dal re David e con la costruzione del tempio di Salomone che è di nuovo il pinnacolo finale della Storia Sacra di cui è stato specialista questo popolo, in particolare con la sua grande tradizione nell’usare il materiale delle leggende per esprimere esperienze interiori. Io credo però che si tratti piuttosto dello sviluppo come di un motivo musicale, di una configurazione interna, non perché nella vita umana si ripeta indefinitamente bensì perché, quale che sia il libro della Bibbia che uno legge, può vedere la storia intera ripetuta attraverso il materiale di un’altra storia. E’ come un albero che si ripete nel ramo e il ramo che si ripete nella foglia. Questi grandi libri sono come tessere, come le cattedrali gotiche che possiedono una struttura globale e si possono ammirare anche microscopicamente e vedere strutture particolari. Mi sembra piuttosto che si tratti di un artificio letterario, di un ricorso letterario per riflettere il tutto in ognuna delle parti.

 

*Psichiatra, psicoterapeuta. Allievo di F. Perls, è stato uno dei primi componenti dell’Esalen Institute. Insegna all’Università di Berkeley

**Psicologo, psicoterapeuta. Direttore dell’IGAT: Istituto di Gestalt e Analisi Transazionale

Pubblicato in “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria” n°21, gennaio-aprile 1994 pag. 3-12

 

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Gestalt e Analisi Transazionale

Gestalt e Analisi Transazionale

Antonio Ferrara Psicoterapeuta Direttore dell’IGAT – Istituto di Gestalt e Analisi Transazionale, Napoli

“INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 41- 42, settembre – dicembre 2000 / gennaio – aprile 2001, pagg. 72 – 77

Mi è stato chiesto in questo convegno di parlare del counselling dal punto di vista dell’Analisi Transazionale. Lo farò tenendo presente la mia matrice gestaltica, approccio nel quale primariamente mi sono formato e soffermandomi su alcuni temi che a me appaiono fondanti relativamente a ciascuna delle due scuole. Più di quanto in generale si pensi, Analisi Transazionale e Gestalt si sono reciprocamente influenzate e tra i diversi filoni di scuola che si sono sviluppati all’interno dell’AT viene ufficialmente riconosciuto quello gestaltico. Persone come B. Goolding, R. Erskine ed altri, che si sono formati in entrambi gli approcci, hanno dato notevoli contributi, sia alla teoria che alla pratica, favorendo lo sviluppo di efficaci modelli integrativi. Pur ritenendo che le integrazioni, oltre che essere inevitabili quando differenti tradizioni terapeutiche si incontrano, siano anche foriere di nuovi fermenti creativi, non per questo mi sento fautore di un eclettismo raccogliticcio e disordinato. Il procedere terapeutico è conseguenza di una visione dell’uomo e stimola un processo di crescita che a tale visione è connesso. È necessario quindi che teorie, tecniche e metodologie siano assimilate ad una concezione coerente e non importa allora se il singolo intervento sia condotto con tecnica comportamentale o di tipo meditativo. Ho incontrato in momenti successivi la Gestalt e l’Analisi Transazionale e mi colpì la loro possibile complementarietà basata su somiglianze e su molte differenze. L’una più attenta ai processi, l’altra più ai contenuti. Entrambe le scuole provenivano dalla psicoanalisi ed entrambe furono
attente ai principi organizzatori della personalità. “È la struttura che cerchiamo nella terapia”, diceva F. Perls, ed in termini strutturali E. Berne elaborò la teoria del Copione. Di origini europee, l’uno tedesco l’altro russo, operarono negli Stati Uniti negli anni ’50 e ’60 influenzando l’intero mondo della psicoterapia. Morirono nello stesso anno, nel 1970, a pochi mesi l’uno dall’altro.

 

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Counselling e psicoterapia relazionale con la famiglia di oggi

Counselling e psicoterapia relazionale con la famiglia di oggi

Corrado Bogliolo Psicoterapeuta

“INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 41- 42, settembre – dicembre 2000 / gennaio – aprile 2001, pagg. 64 – 71,

Secondo B.P. Keeney (18) nella relazione dell’uomo con l’ambiente, o meglio con l’altro, si possono attuare due modelli fondamentali: uno è il “modello del pugilato” in cui due agenti lottano simmetricamente per la vittoria. L’altro è il “modello della colleganza” in cui uomo e ambiente sono considerati complementari. Allora, in terapia, terapeuta e famiglia possono essere visti come due entità che instaurano il primo modello, oppure il secondo, oppure una alternanza di ambedue. Il modello del pugilato è esemplificativo delle teorie terapeutiche che descrivono la relazione in termini di strategie di predominio sugli altri, tattica di potere, manipolazione, e di controllo. Il modello di colleganza tende a descrivere terapeuta e famiglia come impegnati in un viaggio di accrescimento reciproco, un pellegrinaggio di evoluzione in comune, o una esplorazione in collaborazione. Fino a che punto nella pratica psicoterapeutica relazionale si tiene conto delle questioni che il concetto di complessità ha introdotto nelle scienze? Nella visione complessa il sistema famiglia non è una macchina triviale ed eteronoma, regolata dall’esterno, ma un sistema con sue regole e con una serie infinita di possibilità di funzionamento.

 

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Esistenzialismo e verità narrativa

Esistenzialismo e verità narrativa

Paolo Quattrini Psicoterapeuta, direttore dell’Istituto Gestalt di Firenze

“INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 41- 42, settembre – dicembre 2000 / gennaio – aprile 2001, pagg. 24 – 29

Un paio di secoli fa accadde una rivoluzione enorme nella storia del pensiero, che quasi nessuno ha rimarcato a parte gli addetti ai lavori, tanto che ancora oggi il modo comune di pensare è lo stesso di prima di questa rivoluzione. Questa rivoluzione si chiama Esistenzialismo.

Un paio di secoli fa appunto, un certo Kierkgaard, un temperamento nervoso e molto suscettibile, decise di rompere le scatole al mondo del pensiero contemporaneo con un’affermazione all’epoca semiblasfema: disse che la vita non è una domanda che deve trovare una risposta, ma un’esperienza che deve essere vissuta.

In altre parole, mentre da sempre il pensiero è centrato sul problema della verità, il problema più importante è invece cosa ognuno vuol fare della sua esistenza. Un cambio di direzione totale, così totale che solamente gli addetti ai lavori se ne sono accorti e l’hanno dovuto tenere in considerazione, mentre le persone normali continuano a credere che il problema fondamentale sia la ricerca della verità, malgrado che tutto dimostri che una verità sola è difficilmente sostenibile, a parte naturalmente dagli integralismi di qualunque tipo.

 

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